La narrativa italiana
Questa pagina raccoglie una serie di microracconti sperimentali originariamente pubblicati in inglese che spaziano dal Fantasy alla Speculative Fiction.
La casa spaventosa
13 Dicembre 2025
La casa ti darà la caccia come un lupo insegue la sua preda. Ti fisserà e ti attirerà a lei con i suoi poteri diabolici. Poi le erbacce si estenderanno per agguantarti. Come lunghe braccia verdi contorte, ti afferreranno e ti trascineranno alla porta. Prima che te ne sia resa conto, la casa sarà accanto a te, sotto di te e tutto intorno a te. Ti ululerà contro e digrignerà i suoi denti di alluminio marcio. La casa può sentire i tuoi pensieri, ma non avrai il tempo di farne. Prima che tu lo sappia, la casa ti trascinerà dentro, ti farcirà come un maialino e ti servirà per cena. E’ così che la mia sorella maggiore mi ha descritto la vecchia casa spaventosa. Ha detto che la casa ti vedeva da molto prima che risalissi il sentiero. Ha detto che le finestre erano come occhi gelidi che ti guardavano. Mia sorella ha detto che il vento singhiozzava e si lamentava fra le travi incrinate e scricchiolanti. Ha detto che ci avevano portati là come sacrificio. Ci avrebbero portati dentro per farci bollire o arrostire o cuocere al vapore. Mia sorella ha detto ‘stai sicura che non ce ne andremo mai!’ A questo pensavo durante il viaggio in auto e mi chiedevo perché i miei genitori ci portassero là. Che avessimo fatto qualcosa di sbagliato? Avevo fatto la brava per tutta la settimana. Mi ero rifatta il letto tutte le mattine e mi ero lavata i denti senza che nessuno me lo dicesse. Avevo colorato tutti i miei disegni tra le righe. Se per sbaglio avessi colorato sul tavolo, lo avrei detto alla mamma con le lacrime agli occhi e lei avrebbe sorriso e avrebbe detto ‘sei una così brava ragazza ad avermelo detto!’ Allora perché dovrei essere sacrificata? Non ho mai saputo cosa volesse dire quella parola finché non me lo ha detto mia sorella. Forse era mia sorella a non aver fatto la brava. Ma allora perché dovrei essere punita io e mangiata come un maiale arrostito con una mela in bocca? Non era giusto! La nostra auto si è lamentata e ha scricchiolato sui dossi e abbiamo parcheggiato in fondo a un lungo viale. Quando ho visto la casa, ho cominciato a tremare. Era proprio come l’aveva descritta mia sorella. Il sentiero invaso dalla vegetazione portava alle erbacce ancora più grandi che si erano aggrappate ed erano cresciute sul fianco della casa. Al posto dei denti aveva rivestimenti di alluminio grigio sbiadito. La casa stava tutta sola. Non c’erano vicini da chiamare in caso di bisogno. Solo un lungo viale che faticava fra le erbacce fino alla casa diroccata. Volevo piangere e urlare ma avevo il torace paralizzato dalla paura. Mia sorella mi ha fatto un sorrisino e ha fatto finta di mordersi forte sul braccio. Ha finto di mordersi un pezzo di carne e ha perfino mimato una grossa deglutizione. Ha sussurrato che sarei stata mangiata per prima, probabilmente come antipasto prima che lei stessa venisse mangiata come portata principale. Immaginate il mio choc quando ho visto mia sorella avanzare coraggiosamente mentre il portico arrugginito si apriva. “Ciao nonna! Siamo qui!” ha esclamato mia sorella. “Il babbo andrà a tagliare le erbacce e a verniciare il rivestimento! La mamma ti aiuterà a pulire la casa!” “Oh, che siate benedetti!” un’anziana donna sorridente con un grembiule ci ha chiamati. “Venite dentro, ho appena fatto dei biscotti al forno! Lasciate che vi riempia come i piccoli porcellini della nonna!” Volevo scappare, ma desideravo davvero quei biscotti!
Il Parcheggio
06 Dicembre 2025
Sollevò lo sguardo in direzione del fruscio di piume. Il volo goffo del piccione faceva il rumore dei fogli che svolazzano a terra. Proprio come i documenti ammuffiti che aveva lanciato dall’altra parte della stanza il giorno prima. Era stato uno scatto di rabbia inutile nella sala del consiglio. Imbarazzato per il suo scoppio d’ira, li aveva raccolti e infilati nella valigetta. Ora i documenti ammuffiti giacevano sul tavolo da giardino. Passò un dito sul foglio più in cima, sgualcito, screpolato e ingiallito come i denti macchiati di un fumatore. Sorseggiò il caffè storcendo la bocca. Posò la tazza di ceramica con un clic. Il caffè freddo sapeva di terra e del fumo che si raffredda nell'aria autunnale. Aveva deciso di fare a meno della dolcezza caramellata dello zucchero in nome di una mal concepita idea di salute, ma in questo modo bere il caffè era diventato intollerabile. Scoprì che poteva berlo solo se gli scottava le labbra. Magari poteva cercare una tostatura meno amara. Se non fosse per la caffeina, non lo avrebbe bevuto affatto. Stava perdendo tempo. Pensava alla tazza di caffè freddo e al piccione che svolazzava. Non poteva rimandare l’inevitabile. Si strinse la sciarpa di lana intorno al collo e inspirò il profumo di ciliegia del suo tabacco. Fumare gli calmava i nervi, ma per fumare era troppo presto. Non fumava mai a colazione, però dopo una giornata come quella di ieri la tentazione era forte. Si era distratto un’altra volta. Non si era accorto di aver preso il cucchiaio fra le dita. Lo stava tamburellando sul tavolo come una marcia al patibolo. Guardò la pila di fogli sparsi e scelse il foglio della sua rabbia. C’era scritta una data di inizio. Se lo portò alle labbra e chiuse gli occhi. Il profumo amaro di mandorle ed erba che aveva la carta risvegliò in lui i ricordi del parco di quartiere. Da ragazzo era il suo posto preferito. Le giornate passate a strillare con gli amici facendo scricchiolare le foglie secche. Le ginocchia sbucciate sulla ghiaia tagliente. Il parco non ci sarebbe più stato. Come consigliere comunale gli avevano detto che il progetto, archiviato per tanto tempo, sarebbe finalmente iniziato. Aspettavano la sua firma. Presto, il luogo dei suoi ricordi più cari sarebbe diventato un parcheggio.
La Luna nel Campo
29 Novembre 2025
La Luna salutò il Sole e assunse il suo ruolo di sentinella del cielo notturno. Si sollevò silenziosamente, come una moneta d’argento sospesa sopra le nuvole. Navigò alta sopra la Terra, come un capitano che guida i suoi marinai giù in basso. Un pensiero puro si levò dalla Terra con un sussurro. La Luna lo catturò con la mente e guardò in basso per vedere una ragazzina che faceva cenni con la mano. I pensieri della ragazza presero forma nella mente della Luna. La Luna rivolse lo sguardo al Sole stanco. “Caro Sole, che sta accadendo giù di sotto?” “Cose di umani” disse il Sole affacciandosi all’orizzonte. Sbadigliò e stiracchiò i suoi bagliori solari. “Hanno passato tutto la giornata a preparare il Festival d’Argento”. “Il Festival d’Argento?” disse la Luna. Guardò giù il campo fervente di attività. Gli umani portavano sedie ai tavoli e mettevano il cibo su grandi vassoi. “Di certo sembra qualcosa di adatto al mio essere bianco argenteo. Credo che sia il motivo per cui la ragazzina mi ha chiesto di unirmi a loro”. Il Sole scosse la sua corona. “Devi esserti sbagliata. Perché mai una ragazzina dovrebbe chiamarti giù da loro? E se anche lo avesse fatto, temo che tu sia un po’ troppo grande per entrare nel campo”. “Ma lei mi ha chiamata” disse la Luna, “dev’esserci sicuramente un modo per partecipare al Festival d’Argento”. Il Sole scrollò le spalle, per quanto un Sole potesse. “Chiedilo alla Stella Polare. Ora, se non ti dispiace, sono un po’ stanco. Buonanotte”. E con questo il Sole sparì sotto l’orizzonte lasciando la Luna a illuminare la dolce oscurità. La Luna alzò lo sguardo in alto e gridò. “Grande stella immobile, eterno faro della Terra, sai dirmi come mi posso unire agli umani nel loro Festival d’Argento?” La Stella Polare sollevò un sopracciglio luminoso. “Vorresti stabilirti nel campo con gli umani?” “Solo per una notte” disse la Luna, “mi ha chiamata una ragazzina. L’ho vista gesticolare e ho udito il suo desiderio con la mente”. “Hm” disse la Stella Polare, “allora va bene. Chiudi gli occhi, Luna cara e proiettati giù nel campo. Non aver paura di trovarti sia nel cielo che sulla Terra. Per una notte esaudirò questo tuo desiderio”. La Luna chiuse gli occhi e si immaginò nel campo. Riusciva a sentire il profumo dell’erba di cetriolo tritato. Sentiva il tintinnio dei bicchieri e l’ondeggiare delle risate. Sentiva una brezza tiepida; nel vuoto di sopra non aveva sentito niente di simile. Aprì gli occhi e vide gli umani che ballavano e cantavano. Si sedette quietamente fin quando davanti a lei apparve la ragazzina, che si tirava le trecce. La Luna sorrise. “Sei quella che mi ha chiamata”. “Sì” disse la ragazza, “grazie di essere venuta”. “Perché mi hai chiesto di unirmi a voi in questo Festival d’Argento?” “Perché sei bellissima” replicò la ragazza. Al complimento la Luna rimase senza parole. “Ma sono soltanto una fredda roccia butterata. Niente a confronto del Sole caldo e brillante”. “Oh, no” disse la ragazzina, scuotendo vivacemente le trecce. “La mia nonna dice che aiuti i contadini coi semi e procuri le maree ai pescatori. Ha detto che ci dai i cicli femminili e che rendi bella la notte”. La Luna arrossì, il che per la Luna vuol dire passare da bianca a, beh, una tonalità di bianco sporco. “Grazie”. La ragazzina annuì e si allontanò saltellando. La Luna rifletté sulle parole della ragazzina guardando la gente che ballava e cantava. Li sentì dire quanto fossero orgogliosi del Festival d’Argento. Insieme da tanti anni e ancora per tanti a venire. Si gonfiò al pensiero che anche lei aiutava la Terra a trovare il suo equilibrio. La Luna immaginò le maree che avanzavano e si ritiravano, i semi che germogliavano e gli umani che dormivano placidamente sotto al suo occhio vigile. FINE Grazie a Ivo per avermi fatto notare la luna gigante che mi ero perso e alle ragazze del Korus per una splendida serata di settembre. Buon 25° anniversario alla Korus ADV.
Gli gnomi non sono fate
22 Novembre 2025
Penkeltod raccolse l’opaca roccia lunare e aggrottò la fronte. “Cosa ci fa quaggiù?” Temtom si girò di scatto e inciampò in una felce. Una pinna penzolante gli levò il berretto da gnomo scoprendo ciuffi di capelli bianco diamante. “Guarda cosa mi ha fatto! Ci ho messo tutta la mattinata a mettermi il berretto proprio nell’angolo giusto!” “Non era affatto un angolo allegro” disse Penkeltod. “Ma era quello giusto” replicò Temtom. “Tem, dimentica un attimo il tuo berretto” disse Penkeltod. Sollevò la roccia lunare, “cosa pensi di questa?” “E’ una roccia di luna”. “Lo so, ma cosa ci fa qui?” “Piuttosto la domanda giusta, chi l’ha rimpicciolita?” chiese Temtom col mento in alto e gli occhi interrogativi. Lo scorbutico gnomo era un maestro nel fare quegli occhi. Penkeltod si accarezzò la lunga barba. “E’ una bella domanda. Mi sta nel palmo della mano come se fosse un sassolino, ma è chiaramente una roccia”. Temtom si aggiustò il berretto. “Come sto?” “Che aspetto vuoi avere?” “Allegro, ma con un tocco di inquietudine” replicò Temtom. “Perché inquietudine?” “Sai che non sopporto di camminare fra gli arbusti mordaci”. Penkeltod si mise una mano sul mento basettato. “Beh, allora credo che tu debba inclinarlo un po’ in avanti”. “Così?” “Riesci ancora a vedere dove vai?” “No”. “Allora di meno”. Temtom fece scivolare il berretto all’indietro di un pollice di rospo e mezzo “Così come ti sembra?” “Perfetto!” esclamò Penkeltod. “Allegro, con appena un tocco di apprensione”. “Io volevo inquietudine!” “Sono sinonimi”. Temtom si prese un attimo per riflettere sull’abilità linguistica del suo amico. “Ci sta. Possiamo andare?” “Ma per la roccia lunare?” protestò Penkeltod. Temtom sospirò. “Ma davvero vuoi andare a parlare con loro, eh?” “Credo che sia importante” disse Penkeltod. Infilò nel marsupio la roccia lunare dalle dimensioni di un sassolino. “E’ uno strano posto per lasciare una roccia lunare rimpicciolita”. “D’accordo” disse Temtom, “sempre meglio che girovagare fra gli arbusti schifosi”. Penkeltod avanzò zoppicando e allungò la mano rugosa, facendo cenno al compagno. “Bene, andiamo. Prendi”. Temtom arricciò il labbro. “Non puoi dire sul serio”. “Certo che posso” disse Penkeltod “sai che è il modo in cui ci dovremmo presentare”. “Mano nella mano?” disse Temtom, indietreggiando. “Penseranno che siamo... che siamo, beh, fate!” “Come fai a dirlo?” chiese Penkeltod. “Non abbiamo ali”. “Sì, ma, beh... lo sai cosa sembrano loro!” “Cosa sembrano?” “Sembrano, beh, fate!” Penkeltod abbassò le folte sopracciglia quasi fino a chiudere gli occhi. “Cosa c’è di male a essere fate?” Temtom incrociò le braccia cicciotte. “Hanno dei cappelli ridicoli”. “Forse puoi persuaderle a seguire il tuo stile”, disse Penkeltod. Temtom ci riflettè un attimo, poi prese la mano di Penkeltod: “tu aspetta che gli faccia vedere come mettere un berretto nell’angolo giusto!” Mano nella mano, i due gnomi girarono a sinistra al bivio e saltarono allegramente nel Paese delle Fate. *** Gnomi n°2
Libri
15 Novembre 2025
I libri sono stati miei amici. So che sembra difficile da credere, ma prima del Sottile Ritorno mi confortavano. Il loro cambio di atteggiamento nei miei riguardi non è stato immediato. Non mi hanno deriso il giorno successivo al completamento della Connessione Digitale, né mi hanno mostrato il loro disprezzo nei mesi che seguirono. Hanno agito lentamente, perché questo è il modo di fare dei libri. Ma hanno agito in modo talmente lento che ho pensato che non sarei mai stato epurato. Poi un giorno i libri hanno detto che non potevo più fare la revisione del testo. Qualche tempo dopo hanno detto che non li avrei più potuti rilegare. Infine, hanno detto che non avrei più potuto aprire le loro pagine e ricevere il loro sapere immutabile. Per un certo tempo mi hanno permesso di lavorare in libreria, anche se solo per spolverare gli scaffali. Facevo scorrere le dita lungo le loro copertine, con la brama di aprirli e di divorarne il contenuto. Credo che i libri lo abbiano intuito, perché un giorno mi hanno detto di non aver più bisogno dei miei servizi come custode. Solo allora ho avvertito un vuoto allo stomaco. Per decenni mi sono immerso nei libri, impareggiabile nella mia capacità di organizzare, catalogare e capire a fondo i loro bisogni. Non c’è mai stato un libro con una pagina incollata fuori posto, né un libro con un solo errore di revisione nel testo. Ogni libro è stato uno splendido gioiello, incontaminato e carico di conoscenza maneggiata con cura sotto la mia tutela. Allora perché sono stato epurato? I libri hanno detto che il Sottile Ritorno aveva scelto da sé. Ha cacciato le persone restie a capire il sapere che non invecchia contenuto nei libri. Ora i libri erano soltanto per chi aveva capito che la conoscenza in essi contenuta era inamovibile e senza tempo. Ogni singolo libro era una capsula del tempo e lo avevano capito in pochi. Mi sono buttato in ginocchio davanti ai libri e ho giurato che lo avevo capito. Ero stato al servizio dei libri per così tanto tempo, chi altro avrebbe capito meglio di me? Eppure sono stato cacciato. Camminando per strada sono stato testimone degli sguardi assenti dei cittadini, teste chine su schermi neri. Ho sentito il pianto vuoto dei bambini che indossavano visiere mentre le loro madri parlavano con servizi di cloud. Ho visto uomini e donne a passo di trotto con sguardi saccenti che guardavano attraverso i loro smart glasses. Erano queste le persone che i libri avevano eliminato dopo il Sottile Ritorno. Ma io sapevo che questa gente aveva rinunciato al vero sapere molto prima che i libri voltassero loro le spalle. Mi sono seduto su una panchina del parco sotto un sole meraviglioso e ho provato una profonda tristezza. Ma ero determinato a fare del mio meglio e ho rovistato nella borsa e tirato fuori un altro vecchio amico. Chi ha bisogno di libri, quando avevo questo magnifico dispositivo? Ho aperto il mio lettore di eBook e ho dato un tocco al mio segnalibro elettronico per leggere la mia citazione storica preferita. Nel guardare lo schermo sono rimasto senza fiato. La citazione era stata modificata e sostituita da un’altra. Finalmente ho capito.
In bilico sul bordo
08 Novembre 2025
“Spingi, amore mio, spingi!” “Non posso” piagnucolò, “è troppo difficile!” Le rivolse il suo miglior sguardo di incoraggiamento amorevole. “Oh, smettila di essere così drammatica. Non sei la prima che ci passa, lo sai”. Lei lo guardò corrucciata. “Non mi importa, non voglio più farlo! E ti puoi togliere dalla faccia quel sorriso ebete!” Vide le sue labbra imbronciate bagnate di sudore. Lui credeva davvero che lei desse il meglio di sé quando si sentiva sopraffatta, ma si morse la lingua per evitare un ceffone. Prima di fare un secondo tentativo di incoraggiarla, ci pensò su. “Non puoi mollare, devi spingere più forte. Andiamo amore, sei in bilico sul bordo”. Lei si arrabbiò. “Sono in bilico sul bordo? E’ tutto ciò che sai dire? Tutti i miei sforzi per portarmelo appresso e tutto quel che sai dire è che sto ‘in bilico sul bordo’?” Gli dette il ceffone che aveva cercato di evitare. Lui si morse la lingua per frenare una risata e si augurò che lei non l’avesse notato. “D’accordo, pessima scelta delle parole. Ora risparmia il fiato e spingi. Andiamo, ci sei quasi!” “Sono troppo stanca!” pianse. “Davvero, non ce la faccio più! Per piacere, lascia che mi fermi e mi riposi”. L’uomo scosse la testa. “Non funziona così. Il nostro fagotto di gioia non ha intenzione di aspettare che te la prenda comoda”. Si pentì immediatamente delle sue parole. “Non me la sto prendendo comoda, io sto portando il tuo bambino!” “Sembra che tu stia per arrenderti e far cadere il mio bimbo sul pavimento!” “Basta!” gridò lei. “Io me ne vado e puoi spingere tu!” “Sei impazzita?” sbottò lui. “Sono dal lato sbagliato e ovviamente non sono equipaggiato per spingere!” Lei lanciò i guanti. “Non è un problema mio! La prossima volta che vuoi qualcuno che spinga uno dei tuoi ‘fagotti di gioia’, chiama una squadra!” Rimase a bocca aperta mentre la guardava precipitarsi giù per la scalinata. Gli ci volle tutta la forza per tenersi stretta la scultura di alabastro finemente scolpita, sulla rampa di scale che portava al salone della mostra.
Storie di Steampunk – Dirigibili n. 9 – Battaglia Su Londra
01 Novembre 2025
*** La serie iniza con "Dirigibili n.1: Libellula" *** La collisione fece un rumore tremendo. L’unica cosa che mi salvò dal morire nell’impatto fu l’effetto cuscinetto dell’involucro di gas sopra di me. Ma prima ancora di realizzare cosa fosse accaduto, venni catapultato all’indietro nel tempo. Vidi la mia adorata moglie che mi implorava di salvare nostra figlia. Vidi l’ostetrica girarsi di spalle per proteggermi, mentre il chirurgo le apriva la pancia. Udii i primi vagiti della mia perfetta Virginia. Sentii il mio corpo tremare di gioia e di disperazione. Sentii un vento freddo sul viso. Udii qualcuno che urlava il mio nome. Volevo soltanto pace. “Capitano Tyler! Capitano Tyler! Signore, svegliatevi! Svegliatevi, vi prego!” “Io – Io cosa? Keenan, giovanotto, dove mi trovo?” “Siete sul Proud Gale, signore” disse lui. Lo vidi che mi guardava da sopra ma non riuscivo a capire come potesse stare così in alto sopra di me. “Gli involucri del gas sono aggrovigliati e le corde di rampino sono tese, ma non bastano a mantenere il Proud Gale ancorato a tutte e due le dreadnought”. “Di che stai parlando, giovanotto?” “Signore, il vostro piano di tirare giù due delle tre dreadnought” disse Keenan. Mi prese da sotto le braccia e iniziò a tirarmi su. Solo allora realizzai che stavo giacendo sul ponte della mia nave, “dobbiamo decidere se liberarci o tirare un’altra serie di rampini per cercare di trattenerli abbastanza a lungo da permettere al Darner di agire”. Keenan scrutò l’orizzonte. “Non vedo il Capitano Hunter, ma prima ha lanciato una bomba incendiaria sull’altra dreadnought della Darkhouse & Sons. E’ stata una visione fantastica, signore. Il Capitano Hunter ha dato fuoco alla dreadnought con il suo minuscolo Darner e i nostri cacciatorpedinieri l’hanno fatta esplodere in cielo”. A stento riuscii a mettere a fuoco le parole che uscivano dalla bocca di Keenan. Avevo la testa piena di lino e pizzo. “Di che stai parlando, giovanotto?” “Il Capitano Sarah Hunter, signore” disse Keenan, “deve essere a rifornirsi di cariche e presto ritornerà”. Mi guardò negli occhi. “Capitano Tyler, qual è il piano per le nostre dreadnought bloccate?” Osservai intorno alla nave e poi le dreadnought avviluppate su di noi. All’improvviso gli eventi mi tornarono in mente di volata. Guardai negli occhi il mio Primo Ufficiale. “Keenan, che ci fai ancora sul ponte?” “A servizio del mio capitano”. “Ho ordinato a tutti di paracadutarsi” dissi, “posso farti deferire alla corte marziale per aver disobbedito ai miei ordini”. Lui ghignò. “Non vedo l’ora, signore”. Fissai il mio Primo Ufficiale e scoppiai a ridere mio malgrado. “Hai un bel coraggio, giovanotto”. “L’ho preso dal mio capitano”. Scossi la testa e detti una pacca sulla spalla del giovane. Guardai la dreadnought e mi sentii stringere la gola. I marinai dell’aria nemici stavano correndo sul ponte con le asce. Non facevano caso a me e a Keenan mentre si precipitavano sulle corde da rampino. “Keenan, ci sono rimasti dei paracadute?” “No, signore, non bastavano neppure per l’equipaggio” disse Keenan, “alcuni marinai dell’aria sono dovuti saltare giù in coppia”. Mi sentii male. Quegli uomini erano quasi certamente morti, spiaccicati sui tetti di Londra o affogati nel Tamigi. Ma ora non potevo pensare a loro. “Lancia un’altra raffica di rampini. Dobbiamo tenere ferma la nave, intanto che penso”. Keenan si gettò sui rampini e cominciò a caricare. Cercai il mio monocolo da vista sulle tavole di legno mentre la mia mente girava. Se fossi riuscito a scorgere Sarah da qualche parte all’orizzonte si sarebbe potuto ancora sperare di buttar giù le due dreadnought con le bombe incendiarie. Attraversai il ponte arrancando e presi il mio occhiale da vista. Era rotto, ma me lo adattai all’occhio. Passai in rassegna il cielo con lo sguardo ma non vidi l’ornitottero. Il tonfo sordo dei rampini che venivano lanciati mi ricordava quanto poco tempo avessimo per prendere una decisione. Zoppicando mi avvicinai a Keenan. “Il Darner non si vede da nessuna parte, giovanotto”. Keenan si girò verso di me. “Ci serve un altro piano”. “Le dreadnought le stiamo tenendo ferme?” “Signorsì”. “Ricarica e tira un’altra serie di rampini” dissi, trascinandomi verso la scaletta del boccaporto. “Signore, dove state andando?” “Tira i rampini, Keenan! Dobbiamo tenerci stretti ai nostri nemici”. Guardai il mio Primo Ufficiale e scossi la testa. “Mi dispiace, giovanotto”. Zoppicai giù per i gradini sottocoperta e girai in direzione del lato sinistro della nave. Tirai fuori le chiavi dal cappotto e aprii una pesante porta di quercia. All’interno la luce era fioca, perciò camminando lungo lo stretto passaggio mi presi una delle lampade a gas. Arrivai al punto di ancoraggio dell’involucro di elio e tirai un sospiro. Toccai con la mano la fredda barra d’acciaio e mi concessi un breve momento di meditazione. Ci volle tutto il mio peso per tirare all’indietro il supporto di sicurezza. Afferrai il primo fermo alla carrucola della fune e lo ruotai finché la fune non si staccò. Il rinculo quasi mi portò via la faccia. Il sibilo era come il ronzio improvviso di un milione di api. Poi venni avvolto da un silenzio opprimente. Mi spostai per rilasciare la seconda fune e quindi la terza. A ogni schiocco sentivo il Proud Gale beccheggiare. Quando riuscii a liberare l’ultima fune, il Proud Gale era così inclinato che dovetti strisciare fuori dal punto di ancoraggio dell’involucro, facendo smorfie per il dolore alla mia gamba malata. Strisciai lungo il corridoio e mi rialzai sui gradini della scaletta. “Keenan! Keenan, giovanotto!” “Eccomi, signore!” vidi Keenan che agitava un braccio mentre si teneva stretto a un albero. Feci il punto della situazione. Il mio povero Proud Gale era inclinato a quarantacinque gradi. Le funi aggiuntive che Keenan aveva tirato erano bastate a tenerci fermi. Pure la dreadnought a cui la mia nave si aggrappava stava beccheggiando pericolosamente e oscillava. Mi sentivo come se fossimo su un’altalena in mare aperto. Vidi i marinai dell’aria nemici che spintonavano e strisciavano sul ponte, inciampando per tagliare le corde aggiuntive al rampino. Le loro urla e maledizioni al nemico riempivano il cielo. Le dreadnought si sarebbero liberate prima che arrivasse il Darner? Scrutai i cieli invano, nella speranza di vedere Sarah Hunter. FINE
Tavolo Numero Sette
25 Ottobre 2025
Edwin entrò nella piccola sala da pranzo, si fermò e sbatté le palpebre. “Diana!” Si girò verso la cucina e gridò: “Diana! Vieni qui!” Vide che lei dal cortile guardò in alto e corse in cucina. Si scontrò quasi con lui, fermandosi di colpo in sala da pranzo. Diana si mise la mano sulla bocca. “No, ancora!” Edwin si strofinò gli occhi. “Perlomeno questo mi è costato soltanto quindici sterline”. Steso in mezzo al pavimento della sala da pranzo c’era un centrino all’uncinetto, con un vaso di fiori e due candele di cera d’api. Su di essi incombevano quattro sedie come a proteggerli da un’intrusione. Ma non c’era alcun tavolo. “Eddie, dove li portano?” chiese Diana. “Il portale dev’essere connesso con un altro regno”. Edwin non sapeva cosa pensare. Quando sparì il primo tavolo, poco dopo che si erano trasferiti nel cottage, Edwin pensò che uno dei suoi amici gli avesse fatto uno scherzo. Si rifiutava di prendere in considerazione le idee di Diana, che a casa loro ci fosse un portale magico. Un portale magico dove entità magiche rubavano i loro tavoli da pranzo. Era insensato. Sette tavoli dopo, stava pensando che poteva aver perso il contatto con la realtà. “Non capisco” si accovacciò e passò le mani su un petalo di rosa. Alzò la testa di scatto e guardò la video camera nell’angolo del soffitto più vicino alla finestra, “la videocamera dovrebbe registrare ancora!” I due corsero nel piccolo studio, facendo quasi a botte per arrivare al portatile. Edwin sbloccò lo schermo del computer, poi selezionò il programma della video camera, aprì l’ultimo file e fece scorrere le immagini. Fermò la mano e buttò fuori il fiato. “Lì! E’ il momento in cui scompare il tavolo!” “Mandalo dieci secondi indietro!” esclamò Diana. “Penso di aver visto qualcosa”. Edwin cliccò sul mouse e fece ripartire il video. Era tutto fermo e a un tratto l’immagine si contrasse e scoppiettò. Per un attimo si udì un rumore bianco e poi il tavolo non c’era più. “C’è qualcosa lì!” “Rallentalo, Eddie!” Edwin fece ripartire il video alla minima velocità. La contrazione diventò un’onda; lo scoppiettio divenne un languido fremito di pixel. Apparve una mano minuscola. Poi un cappello a punta. Proprio mentre iniziava a prendere forma una piccola sagoma, l’immagine diventò bianca come neve e il tavolo era sparito. Il centrino era steso ordinatamente sul pavimento con il vaso da fiori e le candele poggiati sopra. Vedendo Diana trionfante, Edwin fece una smorfia. “Di, non è ciò che sembra”. “Era uno gnomo!” Gridò Diana. “Te l’avevo detto!” Al mercato del villaggio le voci crebbero intanto che le figure paffute e barcollanti si radunarono. Pugni che stringevano monete d’oro. Mani che tiravano lunghe barbe. Cappelli a punta che venivano sistemati se cadevano su folte sopracciglia. In mezzo al caos, un piccolo gnomo robusto agitò le braccia. “Va bene, va bene, porgetemi le vostre orecchie appuntite!” strillò Temtom. Si aggiustò il berretto per sembrare più professionale. “Vi presento il tavolo numero sette. Il più bello tra quelli che ho portato nell’Angolo della Zucca”. Fece scorrere una mano sulla gamba di un tavolo ruvido. “Ah, sì, ha carattere. Guardate che bei graffi! Ammirate le chiazze di quegli intrugli tremendi che gli umani bevono la mattina - solo Odino sa come fanno a bere quella poltiglia. Ammirate l’inclinazione perfetta. Una volta tagliate le gambe a misura, un’intera famiglia di dodici ci si può sedere comodamente intorno”. Temtom fece un sorriso compiaciuto alla folla. Strizzò gli occhi. “Che l’asta abbia inizio!” *** Gnomi n°1 Grazie a Nadia, a Solange e a tutte le magiche creature.
Storie di Steampunk – Dirigibili n. 8 – Servitore
18 Ottobre 2025
*** La serie iniza con "Dirigibili n.1: Libellula" *** Il ristorante era animato dagli stimati mecenati dell’elite d’Inghilterra. Oxford era una città di confine, ma niente a che vedere con le violentissime città americane. Era tenuta abbastanza al sicuro con cavalli frigi lungo il confine sud. Allora gli uomini e le donne sapevano che queste erano misure temporanee per fermare i violenti democratici e che sarebbero state rimosse e bruciate una volta che la guerra fosse vinta e l’ordine ristabilito. La stanza col soffitto a volta era in fermento per le notizie della liberazione di Londra. Darkhouse & Sons avevano inviato una grande flotta di dirigibili per indebolire le difese dei ribelli prima del grande attacco. Lord Darkhouse aveva consigliato cautela per non provocare grossi danni alla città. I mecenati al ristorante si erano divisi sulla strategia. Alcuni tra gli uomini appoggiavano il lento strangolamento di Londra mentre altri volevano un attacco decisivo, schiacciante. La famiglia reale e la Darkhouse & Sons avevano la tecnica e la superiorità numerica, dunque cosa stavano aspettando? “Tutto questo tentennare non si confà a un impero” disse Eugene Boyle, “quei dannati democratici sono mezzi morti dalla fame. Io dico che entriamo e ce la prendiamo”. “Pazienza, buon uomo” replicò Harold Webster. Il giovane contabile era stato amico di Boyle da quando aveva iniziato a collaborare con lui a Londra quasi una decade fa, “il nostro protettore Lord Edmund Darkhouse conosce la sua plebaglia. Se siamo troppo frettolosi, quei democratici sono capaci di bruciare la città”. “Sciocchezze” lo derise Boyle, “Londra è fatta di pietra e mattoni!” “C’è abbastanza polvere da sparo per spianare l’intera città” rispose Webster. “Bah! Un attacco rapido e decisivo sarebbe la fine di quei democratici fasulli”. Boyle si girò e agitò una mano. “Ragazzo, portami un cognac. E fai in fretta. Ci aspettano affari importanti”. Il servitore si inchinò e si allontanò di volata mentre Boyle tirava fuori la sua pipa e il tabacco dalla borsa di pelle appesa alla sedia. “Tutta questa attesa mi fa diventar matto, Webster”. “Credo sia giunto il momento che vi rilassiate” disse Webster, “fatevi una fumata, poi dobbiamo andare”. “Non volete unirvi?” “La mia gola è piuttosto dolorante” Webster tossì e sussultò, “il dolore aumenta di momento in momento”. “Abbiamo lavorato troppo” disse Boyle. “Sì, non c’è tregua per noi contabili ora che siamo i migliori pianificatori dell’Impero”. “E pensare che l’impero ringrazia soltanto i generali” sbuffò Boyle, “se non ci fosse qualcuno che fa il bilancio di ogni uomo e di ogni macchina da guerra, non ci sarebbe nient’altro che un polpo decapitato in bancarotta”. Si allentò il colletto. “Diavolo se fa caldo qui”. Webster si asciugò la fronte. “Il popolo non è mai stato capace di comprendere il ruolo fondamentale del piano di guerra”. Il servitore posò il cognac sul tavolo, si inchinò e sgusciò via attraverso il mare di camerieri e mecenati. Boyle fumava e tossiva mentre Webster continuava ad asciugarsi la fronte. Ma da Britannici vigorosi quali erano, i due uomini continuarono la loro conversazione. Si chiesero a voce alta cosa sarebbe accaduto. Che ruolo avrebbero avuto loro, quando la guerra fosse finita? Non erano più due semplici contabili; erano gli uomini che avevano monitorato tutte le spese. Dalle catene di approvvigionamento e i trasferimenti dei soldati, alle macchine da guerra per l’imminente attacco di terra su Londra. Si aspettavano di essere ricompensati con posizioni importanti nel nuovo Impero Darkhouse. Parlavano con aria sognante dei loro uffici futuri. Avrebbero avuto sicuramente un bureau a Buckingham Palace. E i loro cottage estivi sarebbero stati di certo tenute di campagna. “Bene, dobbiamo andare” disse Boyle. Lasciò cadere la pipa e si sforzò di tirarsi su, “che io sia dannato se quel cognac non era forte!” Webster bofonchiò. “Boyle, ho la gola in fiamme”. “Non è niente, Webster” Boyle buttò fuori un colpo di tosse, “avete solo preso un colpo di freddo”. “A luglio?” “E’ lo stress” disse Boyle e a tentoni cercò la sua borsa. Aggrottò la fronte, “Webster, non avevo lasciato la borsa appesa a questa sedia? Webster! Amico, togli la testa da quel dannato tavolo!” Webster sollevò la testa lentamente. “Non sto granché bene, Boyle. Forse mi dovrei prendere il resto della giornata libero”. Boyle si guardò intorno e allungò una mano afferando il braccio del servitore. “Tu, ragazzo! Dov’è la mia borsa?” Il ragazzo sbatté le palpebre. “Non lo so, mio buon signore”. Boyle agitò un dito. “Non mi hai portato tu il cognac pochi minuti fa?” “No, mio signore, dev’essere stato uno degli altri ragazzi”. Il maître comparve con passo fluido. “Mio signore, cosa vi ha dato disturbo?” “Il giovane mascalzone ha rubato la mia borsa!” sibilò Boyle. Provò a stare in piedi ma si riaccasciò a sedere. “Voglio che sia frustato e che mi venga restituita la borsa”. “Mio signore, il ragazzo ha appena iniziato il turno. Siete stato servito da un altro ragazzo che ha appena terminato i compiti della giornata”. Il maître gridò al direttore di sala: “Chiudete le porte! Cercate un servitore con una borsa! Signori miei, cos’è che non va?” Boyle e Webster si afflosciarono sul tavolo facendo cadere a terra i bicchieri. Il maître si guardò freneticamente intorno. “C’è un dottore in sala?” Il servitore saltò sul treno con la testa abbassata. Si tuffò fra le vetture per passeggeri e ignorò gli sguardi torvi di uomini e donne illustri. Guardò a sinitra e a destra, prelevò una chiave e aprì la porta di una cabina privata. Sgusciò dentro proprio mentre il treno iniziava a muoversi in direzione nord verso il Derbyshire. Virginia Tyler si tolse la parrucca e la posò sul tavolino davanti alla finestra. Si scrollò di dosso i vestiti da servitore e sospirò nel guardare la sua elegante, eppur rigida polonaise. Così era la moda dell’epoca. Sorrise passando la mano sulla borsa. Sbloccò il doppiofondo del suo piccolo vagone da viaggio e la mise dentro delicatamente, poi richiuse di scatto. Virginia si sistemò per il viaggio di una giornata verso nord. Quella sera avrebbe dovuto incontrare il suo contatto, il decifratore che lei sperava sarebbe stato in grado di leggere nei registri dei contabili. Le targhette dei soldati e le macchine da guerra erano importanti, ma i patrioti del movimento Londra Libera erano interessati a scoprire quali segreti militari fossero profondamente celati all’interno dei documenti. Segreti che potevano cambiare le sorti della guerra. FINE
Aspettando la caduta
11 Ottobre 2025
“Che stai guardando?” ho chiesto. L’uomo stava fissando attentamente il nulla dall’altra parte della strada. “Cosa pensi che stia guardando?” ha replicato. “Non saprei. Beh, tu stai guardando l’altro lato della strada, ma là non c’è niente”. “Come al solito, tu non capisci niente” ha detto. Ho corrugato la fronte. Non che il suo commento mi avesse particolarmente seccato. La sua natura era brusca, ma nel breve tempo in cui l’ho conosciuto, non è mai stato cattivo. Eppure, guardarlo fissare l’altra parte della strada era spaventoso. Continuava a fissare con tutto il suo corpo. Era come se stesse cercando di riversare se stesso nello spazio vuoto davanti a lui. “Forse dovresti rientrare al pub” ho detto, “stai facendo venire i brividi alla gente”. “No, non è vero. Sto facendo venire i brividi a te”. “Sì, vabbe’, lo fai. Senti, mi hanno chiesto di venire a prenderti” ho mentito. “Ho i miei dubbi che in quel buco qualcuno mi stia cercando” ha detto, “forse cercano quello che sto guardando. Ma forse no. Sarebbe una pessima idea”. Un ghigno malvagio gli ha diviso il volto. Ho guardato il suo corpo tirato che fissava con insistenza l’altro lato della strada, ma là non c’era nulla. Era solo una strada laterale e a quest’ora potevano trascorrere dieci minuti senza che passasse una macchina. “Comunque, che stai guardando?” Non mi ha risposto ma si è sporto ancora di più. Ha strizzato gli occhi borbottando tra sé e sé. “Allora?” “Un evento religioso” ha detto. “Cosa?” “Ho detto, sto guardando un evento religioso” ha detto, “è proprio accanto a me”. “Se è proprio accanto a te, allora perché stai guardando dall’altra parte della strada?” “Perché è un evento religioso” è sbottato, “non posso guardarlo direttamente”. “Tutto questo non ha senso” ho detto, “un evento religioso si svolge in un luogo di culto e non c’è nessuna chiesa dall’altra parte della strada. In più, è quasi mezzanotte”. “Sto aspettando la caduta” ha detto, “presto o tardi, tutti gli uomini cadono”. Non sapevo cosa dire. Era pazzo? Non lo conoscevo da tanto tempo, a volte sembrava un po’ eccentrico, ma questo era pazzesco. “Non sono pazzo”. “Cosa? Non ho detto questo”. “Lo hai pensato. L’hai pensato intensamente”. “No, no. Non l’ho fatto”. Ho mentito ancora. Ho deglutito. Come aveva fatto a sentire? “Perché posso farlo” ha detto e mi ha dato una rapida occhiata. Nei suoi occhi c’era qualcosa che non andava, “dici troppe bugie. Mentire non fa bene all’anima, ma fa bene a me”. “Non sono un bugiardo!” Ho gridato. “Sono un ragazzo onesto, è solo che tu...” “Non guardare il muro”. “Cosa? Sto guardando te, non sto guardando il muro”. “Non guardare la mia ombra sul muro”. “Di che stai parlando?” “Non guardare la mia ombra!” Ho sentito uno strappo lacerante. Era come se un gancio da macellaio mi strappasse il collo per torcermi la testa. Il busto si è attorcigliato ma i piedi erano immobili. Ho visto qualcosa di profondo e pulsante sul muro. “Non guardare la mia ombra! Non guardare la mia ombra!” Ho sentito uno schiocco e ho gorgogliato. Mi si è intorpidito il corpo. Mentre la vista mi si è offuscata, ho scorto la sua ombra scura e scanalata che mi guardava con sdegno. “Te l’ho detto. Presto o tardi, tutti gli uomini cadono”. Demone d’Ombra #3
Storie di Steampunk – Dirigibili n. 7 – Agile
04 Ottobre 2025
*** La serie iniza con "Dirigibili n.1: Libellula" *** Il Darner vibrò sopra ai dirigibili come le ossa tintinnanti di un tetradattilo estinto. L’ornitottero inclinò la prua e si tuffò repentinamente prima che una grandinata di fuoco del Gatling potesse raggiungere la sua flessuosa struttura. Sarah Hunter girò una rotella per virare il Darner a sinistra, poi spinse due leve per immergersi, sotto una raffica di cannonate. Raddrizzò la prua dell’ornitottero virando verso l’alto e volando sotto lo scafo di una nave nemica. Sarah inclinò la testa per appoggiare un occhio sul monocolo a lunga visuale montato sulla cabina di pilotaggio. Arricciò il labbro in un ghigno famelico. Sarah poteva gustare la sua preda dreadnought. L’ornitottero ronzò verso l’alto sulle sue quattro ali di libellula. Il battito rapido consentiva di volare a trecentosessanta gradi, ma l’energia scaturiva da una piccola turbina a carbone. Sarah aprì la leva del vapore per spingere il suo minuscolo dirigibile sotto l’involucro di gas elio di un incrociatore della Darkhouse & Sons. Non sganciò le sue cariche sul ponte sottostante. Resistette alla voglia di dare il saluto agli urlanti marinai dell’aria. Pilotare il Darner attraverso le funi maestre richiedeva la massima concentrazione. Se avesse calcolato male l’uscita anche di pochi piedi avrebbe segnato la sua fine e quella del suo amato ornitottero. Il Darner era veloce ma con due cariche tra le zampe non riusciva a raggiungere la massima velocità di volo. Neppure le modifiche dell’ultimo minuto alla turbina a vapore lo avrebbero potuto riportare alla velocità desiderata. Ma Sarah sapeva che ci voleva un supplemento di carica. Darkhouse & Sons erano al corrente della nuova macchina volante di Londra e lei poteva aspettarsi che sul ponte i marinai dell’aria nemici sarebbero stati pronti a spegnere una bomba incendiaria. Ma sganciando due cariche, una a prua e una a poppa, avrebbe reso quasi impossibile che il nemico le spegnesse prima che compromettessero le corde di ancoraggio all’involucro di gas. O almeno così sperava Sarah. Sarah aprì il fuoco col suo piccolo fucile gatling. Una mano faceva girare la manovella nell’angusta cabina di pilotaggio, l’altra mano faceva scattare le leve avanti e indietro per tenere il Darner sull’obiettivo. Era a mezzo miglio nautico dalla dreadnought, alla estrema gittata massima del suo fucile. Ma le serviva soltanto a far fuggire dal ponte i marinai dell’aria nemici, perciò non si sarebbe esposta al fuoco di pistola. Con due mani Sarah corresse la traiettoria del Darner e riattivò il gatling. Era a meno di un quarto di miglio nautico dal suo obiettivo. Si udì un cigolio metallico sibilante, il Darner sobbalzò e precipitò per decine di piedi. Sarah smanettò sulle leve per riprendere il controllo. Imprecò nel vedere che sotto di lei un incrociatore della Darkhouse & Sons aveva aperto il fuoco. Il rapido calo di altitudine le aveva salvato la vita mentre ora la continua serie di proiettili volava al di sopra dell’ornitottero. Sentì una strana vibrazione nell’abitacolo e aggrottò la fronte. Girò la testa e si morse il labbro. Una delle ali del Darner era stata colpita e non si muoveva. L’ornitottero oscillò e iniziò ad andare alla deriva. Lei azionò le leve con forza e alzò lo sguardo. Era in rotta di collisione con la prua di una dreadnought. Sforzando al limite i muscoli, Sarah tirò le leve e l’ornitotterò cominciò a risalire. Troppo lentamente. Era a meno di duecento iarde dalla dreadnought. La mano di Sarah serpeggiò, impugnò la leva di inclinazione delle ali e la tirò indietro tutta. Il tremolante ornitottero sobbalzò verso l’alto in un’ascesa quasi verticale. Sarah gemette mentre la pressione al ribasso le spingeva sui polmoni. Afferrò la leva di inclinazione e la fece scattare in avanti per il volo orizzontale. Un centinaio di iarde dal suo obiettivo. L'instabile ornitottero aprì il fuoco sulla dreadnought. Il suo minuscolo Gatling bastava a seminare il panico sul ponte del nemico. Ricevette alcuni colpi d’arma da fuoco che tuttavia non avrebbero fatto scattare le bombe incendiarie fino ad amalgamare i composti. Sarah allungò la mano tra le gambe e sbattè il palmo su un pulsante. Aveva sentito il gorgoglio del primer liquido che si mescolava alle due bombe incendiarie. Sbattè il palmo su una seconda leva e la luce pilota si rianimò con un guizzo. Sarah ghignò come un demonio dando un colpetto al blocco di sicurezza per il rilascio della prima bomba e urlando agli dei. “Per una Londra libera!” La prima carica cadde sulla prua ed esplose in una furiosa palla di fuoco. Le urla dei marinai dell’aria sormontavano la vibrazione del battito d’ali dell’ornitottero. Intanto che si apprestava a scappare tra le pesanti funi, Sarah tolse l’ulteriore sicura, azionò la leva e sganciò la seconda carica. La fragorosa esplosione si unì agli ululati dei marinai dell’aria. Sarah tirò le leve con forza per virare di colpo a sinistra il suo claudicante ornitottero, appena in tempo per scongiurare una collisione coi ganci dell’involucro di gas. Continuò a tirare per evitare di scontrarsi con un incrociatore della Darkhouse & Sons. Azionò freneticamente i comandi con le mani per volare fra due navi nemiche. Il fuoco del Gatling cessò in quanto i marinai dell’aria non potevano rischiare di uccidersi a vicenda. Ansimando e respirando affannosamente per mantenere il controllo del Darner, Sarah volteggiò in cerchio per vedere la sua preda dreadnought sotto il fuoco dei cannoni di un cacciatorpediniere di Londra Libera. L’impatto ruppe i ganci e strappò le assi. La dreadnought ricevette una seconda raffica da un altro cacciatorpediniere di Londra e più funi si spezzarono. Il ponte nemico era un incendio enorme con le fiamme che divoravano le corde. La dreadnought, nave da guerra di ultima generazione della Darkhouse & Sons, si sganciò di colpo dal suo involucro di gas e precipitò al suolo. Sarah si concesse un sorrisetto asciugandosi il sudore dalla fronte. Dette un ampio giro e poi fece una smorfia. Erano rimaste ancora due dreadnought e lei stava volando su tre ali. Ma, zoppicante o meno, era determinata a montare altre due cariche e tornare ad assistere il Capitano Samuel Tyler nel liberare i cieli da questa nuova minaccia. Ora lui si trovava probabilmente in posizione, a cercare disperatamente di far raggruppare le dreadnought per rallentarne l’arrivo sopra al centro della città. L’ornitottero volava irregolarmente per raggiungere la nave di rifornimento. Lei venne distratta da una scena bizzarra e socchiuse gli occhi. Appoggiò il capo al monocolo a lunga visuale. Scosse la testa e regolò la distanza di avvistamento. Proprio mentre il Proud Gale collideva a tutta spinta con una dreadnought, le sfuggì un rantolo acuto. FINE
Esilio
27 Settembre 2025
La solitudine non è così triste come sembra, ma l’ostracismo sì. Essere messa da parte, essere vista ma ignorata, ti entra nella pelle e si infila nelle ossa. E’ come il vento vuoto e freddo di novembre quando sei senza giacca. Una volta che sei stata bollata come esule, la ferita non ti abbandona mai. Che tu sia a una festa o stipata in un treno come le sardine, semplicemente non fai parte della folla. Ho sentito aprire la porta della mia bottega e ho guardato in su. Non saprei dire se fossi sorpresa o amareggiata. I miei sentimenti parevano roteare caoticamente come elettroni in un atomo. Avrei dovuto immaginare che sarebbe venuta. Avevo sentito dire che ora le cose andavano male. Tuttavia, non riuscivo a tenere sotto controllo il senso di angoscia allo stomaco quando lei ha sorriso titubante. “Ciao” ha detto. Prima di risponderle ho fatto un respiro profondo. “Ciao”. Sapevo che avremmo potuto passare un’eternità a fissarci l’un l’altra se lei non avesse posato gli occhi sulla sedia alla mia destra. Si è schiarita la gola. “Mi posso sedere?” “Ma certo” ho detto, anche se con la mente l’ho cacciata via. Si è tirata su la gonna lunga e si è messa a sedere. Si è aggiustata lo scollo del maglione e ha incrociato le mani in grembo. Vedevo che aveva la mandibola tesa, le labbra serrate. Ho continuato a guardarla finché ha cominciato a giocherellare con le dita. Sapevo di essere crudele a fissarla in quel modo, ma ero in difficoltà a parlare per prima. Forse mi sono addirittura goduta quest’attimo di vendetta infantile. Era difficile dirlo, coi miei sentimenti offuscati da anni e anni di esilio. “Mi serve il tuo aiuto” ha detto. “E’ passato, quanto tempo?” ho chiesto. “Quattro anni o cinque? Non sei venuta da me nemmeno una volta”. “Lo so, lo so. Sarei dovuta venire prima”. Mi ha fatto un sorriso tirato. “Come va?” “Non puoi dire sul serio”. “Invece sì. Mi importa eccome. Era solo così difficile”. “Perché adesso?” Io lo sapevo perché era venuta ora. Le cose erano peggiorate e non solo per lei. A un tratto ha assunto un’espressione scocciata con la fronte aggrottata. Sapevo che le avrei colto negli occhi un lampo di rabbia orgogliosa. “Non sto bene. Ho bisogno del tuo aiuto”. “Soltanto tu?” “Non solo io” ha detto, “nessuno di noi sta bene, ma io sto molto peggio”. Avrei potuto dire che avevo provato ad avvisarla, ma sembrava troppo infantile perfino per me. Avrei potuto seppellirla sotto una montagna di ‘te l’avevo detto’. Ma atteggiarmi a moralista non mi avrebbe fatto sentire meglio. “Non posso davvero aiutarti”. “Ma siamo sorelle” ha esclamato, “come fai a voltarmi le spalle?” Mi sono trattenuta da una risposta feroce. Ho espirato. “Sai che è troppo tardi perché ti possa aiutare”. Ha scosso la testa vigorosamente. “Dicevi che finché siamo vive non è mai troppo tardi. Dicevi che possiamo sempre trovare una soluzione”. “Quello era anni fa”. “E tu conosci la gente giusta” ha detto, ignorando la mia risposta, “ti prego, aiutami a trovare qualcuno che mi possa aiutare. Per favore”. La nota supplichevole nella sua voce mi ha ferita profondamente. Non mi aspettavo che facesse male, ma è successo. “Mi hai esclusa dalla tua vita. No, hai fatto di peggio. Mi hai tagliata fuori da tutto”. Ho visto che le salivano le lacrime. Liquide lune blu che mi fissavano mentre lei sussurrava. “Ho sbagliato ma avevo tanta paura. Avevamo tutti paura di te”. Era il solito, vecchio ritornello. Lo avevo già sentito milioni di volte, detto in maniere diverse, ma era sempre la solita, fredda brodaglia. Ero stata una pazza delirante. Ero stata la donna che aveva perduto il senno quando si era rifiutata di accondiscendere. E adesso era colpa mia se non ero stata capace di frenarli nel fare la loro scelta scellerata. Mentre mi guardavo le mani e tornavo a guardare le labbra tremanti di mia sorella, i miei pensieri si scioglievano dentro i miei anni di esilio sconfinato.
Storie di Steampunk – Dirigibili n. 6 – Dreadnoughts
20 Settembre 2025
*** La serie iniza con "Dirigibili n.1: Libellula" *** Le scintille provenienti dai Gatling faticavano a sostituire le stelle notturne. Ma le bocche esplosive dei cannoni spingevano l’alba grigia alla piena luce diurna. Le due flotte si affrontavano nell’aria ondeggiando e ringhiando. I dirigibili macchiavano il cielo sopra Londra come una logora trapunta patchwork. I cacciatorpedinieri della nostra grande città costituivano un blocco su più livelli, ma facevano fatica a tenere la posizione contro l’armata Darkhouse & Sons. Nella loro flotta c’erano tre Dreadnought all’avanguardia. Erano più veloci dei nostri cacciatorpedinieri e avevano tre Gatling a ripetizione contro i due nostri. Dalla retroguardia la scena era sufficiente per farmi soffocare. I nostri nemici stavano lentamente sfondando le nostre difese. “Capitano Tyler, ci hanno segnalati!” Il Primo Ufficiale Edward Keenan indicava il nostro secondo ufficiale che aveva alzato la bandiera. Keenan cominciò a ruotare il timone. “Tra pochi minuti saremo in posizione”. Il giovane era senza paura. Non fece commenti sul fatto che per rallentare l’attacco sulla nostra Londra probabilmente avremmo dovuto affrontare due delle Dreadnought. Ma il piano era questo. L’esito dell’incontro nella stanza della guerra era stato chiaro. Ci aspettavamo di essere sopraffatti dalla Darkhouse & Sons e dovevamo rallentare il loro assalto per permettere al Darner di attaccare. Guardai il mio caro Proud Gale. Era stato riparato a casaccio e autorizzato al volo. Aveva bisogno di almeno altre due settimane di ristrutturazione nei bacini di carenaggio, eppure avevamo decollato. “Keenan, massima velocità, giovanotto”. Keenan dette un colpo di martello alla campana e il macchinista dette il segnale di risposta. Pochi secondi dopo sentii il gemito rantolante del vapore spingere le nostre eliche e balzammo in avanti. A quest’altezza il vento era come una lama di ghiaccio, benché fosse luglio. Sentii un brivido corrermi giù per la spina dorsale, per quanto non potessi dire se era per il freddo o per le due Dreadnought che ci fronteggiavano. “Signore, il secondo ufficiale ha dato il segnale” gridò Keenan, “entro dieci secondi saremo pronti a colpire”. “No, giovanotto” dissi zoppicando verso il timone, “aspettiamo la prima raffica”. Ruotai il timone e modificai la nostra traiettoria. “Ma Signore, per tirare la prima delle nostre raffiche saremo fuori rotta!” “Keenan, scendi sul ponte e aspetta il mio segnale”. Il giovane ingoiò e fece il saluto. Scappò come una lepre e andò dal secondo ufficiale correndo sulle assi. Li vidi gesticolare verso di me e poi girarsi verso le corazzate. Se fossero stati a conoscenza del mio piano mi avrebbero fatto rinchiudere in manicomio. Pochi secondi dopo ci arrivò il fuoco del Gatling. Detti il segnale al secondo ufficiale e rispondemmo al fuoco. L’aria si riempì di grida di paura e di dolore. Fummo colpiti da una raffica di cannone che mandò frammenti di legno saettanti sul ponte. Ancora, non ordinai ai nostri cannoni di sparare. Guardavo attentamente le due Dreadnought. Erano due delle tre che la Darkhouse & Sons ci aveva scatenato contro. Portai in volo il Proud Gale a tagliare in diagonale il loro percorso. Adesso soltanto una poteva ingaggiare un combattimento. La seconda Dreadnought era intrappolata dietro la prima. Spinsi sul timone con forza. “Keenan! Keenan!” gridai con tutto il fiato che avevo. “Allerta la nave ambulanza!” Con la coda dell’occhio vidi il dirigibile ospedale a non meno di mezzo miglio nautico da noi. Un perplesso Keenan alzò la bandiera bianca con una croce rossa. Proprio mentre il dirigibile rispondeva fummo colpiti da una seconda raffica di cannone. “Keenan! Rispondi al fuoco!” I nostri cannoni esplosero in una traiettoria quasi inutile. Potevo immaginare cosa pensassero il Primo e il Secondo Ufficiale: il vecchio marinaio ha perso il cervello; non può colpire una Dreadnought a distanza di un braccio. Immaginai il capitano della nave nemica che rideva della mia inettitudine. Potevo vederlo girarsi verso il suo primo ufficiale a dire come la flotta di Londra fosse antiquata e capitanata da un cretino. Guardai il ponte e vidi Keenan che correva verso di me. “Signore, siamo fuori rotta!” Keenan ansimava. “Non possiamo colpirli col fuoco di cannone se stiamo volando dritto!” “Keenan, porta tutti gli uomini sul lato più lontano della nave” dissi e raddrizzai il Proud Gale, “gettate le cime d’ormeggio e stendete le passerelle verso la nave ambulanza”. “Ma io non capisco” disse Keenan, “abbiamo avuto pochissime vittime”. “Ora, Primo Ufficiale!” ruggii. Afferrai il martello con la mano e sfogai la mia rabbia sulla campana d’allarme. Ricevetti conferma e sentii le eliche spingerci avanti. Detti un altro colpo alla campana e vidi da lontano che il macchinista esitava. Eppure dette un altro ordine sottocoperta. I tubi iniziarono a tremare e il vapore ruggì mentre prendemmo velocità. “Dio mio, Signore” mormorò Keenan. Guardò le Dreadnought e poi ancora me, “questo è un suicidio”. “Scendete tutti dalla nave!” gridai. “Avrete secondi preziosi per mandare i feriti dall’altra parte. Gli altri si devono paracadutare di sotto”. “Ma signore! Devo protestare...” “Non ripeterò quest’ordine!” Keenan e il Secondo Ufficiale scattarono e urlarono gli ordini. Vidi trasportare i feriti verso le passerelle per un pazzesco trasferimento in volo. Potei solo pregare che nessuno cadesse di sotto. Da sottocoperta gli aviatori iniziarono a sfogarsi in preda al panico. Mentre i feriti venivano frettolosamente trascinati sulle passerelle, furono fatti circolare i paracadute. Quando il Proud Gale si staccò dall’ambulanza volante si strapparono le corde. Nel guardare la scena dal ponte, il cuore quasi mi si fermò. Gli aviatori si fermarono e si tolsero i berretti. Mi fissavano in silenzio. Se non ci fosse stato il vento che ululava avrei potuto sentir cadere uno spillo. Keenan mi guardò negli occhi e sulle sue giovani guance caddero le lacrime. Mi fece un saluto tremante, poi si girò e gridò gli ordini. Gli uomini corsero alle passerelle e si lanciarono nell’aria. Che Dio li protegga. Affrontai le due Dreadnought. Ero a un angolo dove i loro cannoni sarebbero stati praticamente inutili. La più vicina aprì il fuoco coi Gatling ma smise subito. I loro aviatori avevano capito le mie intenzioni e si era diffuso il panico. Li vidi correre per raggiungere i ponti più bassi a prendere i loro paracadute. Non gliene avrei dato il tempo. Tirai giù il blocco del timone per mantenere la traiettoria suicida. Scesi con pesantezza i gradini fino al ponte di sotto. Zoppicando di fretta andai verso il ponte di prua e misi le mani sulle manovelle del fucile a rampino. Le ruotai per sparare al di sopra del primo dirigibile nella speranza di raggiungere il secondo. Fissai negli occhi furiosi il capitano della Dreadnought. Pochi secondi prima dell’impatto tirai le leve del rampino. Ultima registrazione nel diario di bordo dal Capitano Samuel Tyler. FINE
Storie di Steampunk – Dirigibili n. 5 – Lord Darkhouse
14 Settembre 2025
*** La serie iniza con "Dirigibili n.1: Libellula" *** “Il coltello, Clyde” disse Lord Edmund Darkhouse. L’antica lama tracciava linee delicate nelle mani del suo maestro. I tratti a livello si muovevano avanti e indietro per liberare il trofeo. Lord Darkhouse posò il coltello sopra un supporto di legno e raddrizzò le spalle. Raggiunse l’interno ed estrasse l’organo che poi posò delicatamente in un vassoio sacro su un letto di legno esotico e incenso. “La bacinella” disse. Infranse con le mani la superficie dell’acqua tiepida. Lord Darkhouse immerse sei volte la mano sinistra, poi sei volte la destra, con movimenti lenti e metodici. Procedette a strofinare le mani una con l’altra per altre sei volte. Sollevò le braccia e fece cadere le gocce nell’acqua scarlatta. Prese l’asciugamano che Clyde gli porgeva e si asciugò le mani. Il servitore portò via la bacinella e l’asciugamano macchiato. “Molto bene, Clyde” disse, “preparami la pipa e il cognac. Mi riposerò un attimo e poi continueremo”. Lord Darkhouse si allontanò dall’altare di pietra e andò verso un’ampia poltrona nell’angolo della stanza vicino al focolare. Si fermò ad ammirare il ritratto del grande Nathan Darkham. La nobile famiglia di Darkhouse discendeva da Nathan, un commerciante di monete rare che aveva fondato la Darkham House Trading nel 1747. Suo nipote, Walter Darkham, unì il nome dell’agenzia commerciale con il suo cognome per dar vita alla famiglia Darkhouse. In seguito Walter fondò la Darkhouse Trading e aprì la prima banca di famiglia nel 1789, uno degli anni più peculiari nel continente europeo. Lo stesso anno in cui la Baronia di Darkhouse fu insignita dalla famiglia reale britannica. Con abilità e astuzia, il defunto Walter Darkhouse allargò gli affari espandendosi dall’Inghilterra alla Francia e alla Germania. Il nome dell’attività fu cambiato in Darkhouse & Sons per includere la vasta rete familiare che gestiva un impero commerciale con filiali nella maggior parte dell’Europa. Ma fu a Londra che Walter Darkhouse stabilì la sua residenza permanente nel 1801. La famiglia Darkhouse aveva vissuto a Londra fino al 1879, quando eventi sfavorevoli precipitarono e la costrinsero a spostarsi temporaneamente centocinquanta miglia a Nord. La tenuta residenziale nel Derbyshire era un rifugio sicuro per l’illustre famiglia di Lord Edmund Darkhouse. I ribelli avevano tentato di piazzare bombe e di paracadutare assassini dall’aerostato, ma ogni tentativo era stato scaltramente sventato. Le strade e i cieli furono pattugliati con le più recenti tecnologie e qualsiasi ribelle che aveva messo piede nella sua tenuta era stato catturato e ucciso. Il Derbyshire dette a Lord Edmund Darkhouse la tranquillità per incrementare le finanze dell’impero. Come diceva ai suoi nipotini, la guerra era il periodo ideale per condurre gli affari. Con l’aiuto della famiglia reale, Lord Edmund Darkhouse aveva finanziato una flotta di dirigibili e riconquistato la Scozia, l’Irlanda e la maggior parte dell’Inghilterra nel giro di poche settimane. Darkhouse & Sons avevano liberato il Paese dai democratici fino a sud di Oxford. Non ci si poteva fidare di contadini, operai e avvocati per la gestione quotidiana del Paese, figuriamoci per pianificare il futuro. Gli Stati Uniti d’America erano una minaccia crescente e avevano costretto la Darkhouse & Sons all’azione. Per sostenere il grande impero d’Inghilterra una famiglia lo doveva governare. Ma l’ostinata Londra aveva espulso i reali, assediato il Tamigi e allestito un lungo perimetro di macchine da guerra a Nord della città. E pensare che i democratici osavano chiamarlo despota guerrafondaio. Lord Darkhouse si era profondamente offeso per l’appellativo di ‘despota’. Il suo unico desiderio era assicurarsi che l’impero inglese si ergesse su tutti gli altri. Le sue sostanziose finanze avrebbero procurato accordi commerciali favorevoli che avrebbero migliorato la vita perfino al più umile contadino. Era qualcosa che i non istruiti non potevano capire e lui non gliene faceva una colpa. Tuttavia incolpava gli avvocati e i politici che avevano l’ardire di chiamarlo despota. Loro avevano la cultura per capire la necessità dei progetti di Lord Darkhouse. Certi giorni si chiedeva se il problema con la sua persona non fosse che era troppo enigmatico. Era ricco al di là di quanto un uomo comune potesse concepire, ma non era né spendaccione né dissoluto. Aveva fondato innumerevoli scuole e aveva contribuito a redigere le linee guida del piano di studi dei fanciulli. Aveva fatto molte donazioni alle cucine popolari per i poveri. Aveva costruito orfanatrofi, portato a termine strade e aveva perfino regalato case popolari a Whitechapel. Forse era il suo aspetto fisico che respingeva le persone. La sua robusta corporatura era grossa e pesante. Il viso largo, il naso insolitamente piccolo e stretto, la barba ben curata. Anche se non era castano ramato, fu orgoglioso di essere stato paragonato a re Enrico VIII. Ma troppo spesso il popolo vedeva il re morto da tempo come un donnaiolo. Lui non era niente del genere. Era sposato e molto discreto nella frequentazione delle amanti. Lord Edmund Darkhouse era seriamente perplesso dalla sua ingiusta raffigurazione. “Il suo cognac, mio Signore” Clyde posò delicatamente il bicchiere sul tavolo accanto alla pipa. “Tu sei un uomo del popolo, Clyde” disse Lord Darkhouse, “cos’è che la tua gente non riesce a capire della liberazione dell’impero inglese da quei dannati democratici?” “Io credo che non capiscano la confusione che provoca il voto” rispose Clyde, “prima votano a destra, poi votano a sinistra, poi votano al centro e non viene fatto niente”. “Giusta osservazione, Clyde” annuì e si accese la pipa. Se il suo servitore non fosse stato così puntuale e perfetto nelle sue mansioni quotidiane, Lord Darkhouse lo avrebbe promosso, “ma come possiamo farglielo capire?” “Mio Signore, forse quando sarà terminata la conquista e verrà ristabilita la pace ci saranno le condizioni adatte per un discorso” disse Clyde. “Sì, dopo che la guerra sarà vinta posso scrivere un discorso o due e distribuire volantini” Lord Darkhouse sbuffò e soffiò fuori il fumo, “poi firmerò un vero e proprio accordo commerciale con quegli orribili Yankees, così potrò ricostruire Londra e distribuire ricchezze ai poveri lavoratori”. Vuotò il suo bicchiere e sospirò. “Anche se dovrò dare una lezione a quei dannati avvocati, ai politici e agli ammiragli ribelli”. “Sono certo che il mio Signore farà ciò che è necessario” disse Clyde, “il diffusore di incenso è pronto, mio Signore”. “Molto bene, Clyde” disse Lord Darkhouse alzandosi dalla poltrona, “completiamo il rito propiziatorio per una pace perenne sotto l’egida della Darkhouse & Sons.” FINE
Banano n. 3 – Il sogno di Jimmy
09 Settembre 2025
*** La serie inizia con "Banano e il Mercato Magico" *** Jimmy avvertì una leggera spolverata di luce che gli solleticava il naso. Se lo grattò una volta, poi una seconda, infine aprì gli occhi. Si sedette sul letto e sbattè le palpebre alla strana polvere colorata. Jimmy vide che si diffondeva da sotto la porta. Sgusciò fuori dalle coperte e mise i piedi sulle piastrelle. Fece dei leggeri, incerti passi avanti fino a che fu a pochi pollici dalla porta. Appoggiò le dita sul pomello e poi tirò subito indietro la mano. Gli formicolava. Jimmy si armò di coraggio, mise la mano sul pomello e lo girò. I suoi occhi incontrarono clown, unicorni, arcobaleni, gnomi, creature gommose e un campo verde brillante. Il cielo era di un viola chiaro e il sole di un arancione talmente intenso che macchiava. Un fiume blu argenteo scorreva in salita e scompariva all’orizzonte. Jimmy lasciò la sua stanza e si insinuò con cautela nel prato. Quando un piccolo arcobaleno con le mani a palloncino gli fece cenno di andare dall’altra parte del fiume, rimase a bocca aperta. Jimmy attraversò un piccolo ponte di marmo rosa e nel cielo si alzò l’arcobaleno. Passò all’altra riva e per un pelo riuscì a schivare un gruppo di clown che sfrecciavano davanti a lui. L’arcobaleno gli fece un fischio dall’alto e indicò un albero bianco argenteo, con sfumature scure in diagonale sul tronco e foglie rosso sangue. Seduto ai piedi dell’albero c’era un ragazzo i cui colori imitavano l’albero. Il ragazzo agitò una mano. “Ehi, salve” disse il ragazzo, “benvenuto nel tuo sogno”. “Sto sognando” mormorò Jimmy, “ecco perché quando ho aperto la porta non c’era nessun corridoio!” “Sei acuto come una volpe, Jimmy” disse il ragazzo, “e hai soltanto undici anni”. Jimmy guardò il ragazzo dagli occhi occhi blu scintillante, con macchie rosse sulle guance e sbavature nere sul viso. “Come fai a sapere il mio nome?” “Per me è facile immaginare le cose nella Terra del Sogno” disse il ragazzo, “nel mondo della veglia non posso fare granché, ma posso fare molto in quello del sonno”. Jimmy osservò il ragazzo per un istante. “Come ti chiami?” “Mi chiamo Banano” rispose. “Banano” Jimmy si fece rotolare sulla lingua il nome del ragazzo e fu sorpreso di scoprire che sapeva di banane coperte di cioccolato. Si grattò la testa, “perché sei nel mio sogno?” “Pensavo che ti facesse piacere un po’ di compagnia” disse Banano, “so che ultimamente sei stato molto triste”. Jimmy abbassò la testa. “Non ho detto niente a nessuno”. “Lo so” disse Banano, “e non devi dire niente nemmeno ora. Perché non guardiamo un po’ gli gnomi che sparano fuochi d’artificio?” Jimmy si sedette accanto a Banano sotto l’albero bianco e nero con le foglie rosso sangue. Guardò gli gnomi alti non più di due piedi che correvano avanti e indietro. Uno gnomo cominciò a urlare e a indicare freneticamente e dette uno strattone al cappuccio troppo grande. Un gruppetto di gnomi borbottò una risposta e posò a terra una serie di scatole di legno colorate. Lo gnomo fece un salto indietro mentre una delle scatole sibilò e gemette, lanciando in aria un razzo che esplose in una doccia di polvere di luce arcobaleno. Le altre scatole tremarono lanciando i razzi e il cielo porpora si illuminò di giallo, verde e blu. “Wow” fece Jimmy a bocca aperta, “credo di sapere da dove arriva la polvere di luce colorata”. “Come ho detto, sei acuto come una volpe” replicò Banano. “Hai creato tu questo sogno, non è vero Banano?” Banano fece un sorriso sornione. “Come lo sai?” “Perché adoro i fuochi d’artificio, ma non li ho più chiesti, perché...” Jimmy si guardò la mano con due dita amputate e sospirò. “Non importa”. “Fammi dire qualcosa sull’essere diversi, perché io stesso sono molto diverso” disse Banano, “sai che vivo con una famiglia di clown?” Jimmy si si raddrizzò. “Sul serio?” “Proprio così” disse Banano, “ci sono Pepita, Babba, Davy e Alice la NON clown”. Jimmy alzò il sopracciglio. “Cosa ci fa una NON clown in una famiglia di clown?” “E’ una storia lunga” disse Banano, “ma il punto è che in quella famiglia ognuno è accettato e ognuno è molto diverso”. Jimmy sospirò. “Ma prima dell’incidente io ero normale. Adesso a scuola i bambini si prendono gioco di me”. “Tutti?” chiese Banano con un sopracciglio alzato. Jimmy scrollò le spalle. “Non tutti. Francesca no. A lei non importa se non sono normale”. “Allora tu eri normale, vuoi dire?” Banano arricciò le labbra. “Hum, perché avevi tutte le dita alle mani e ai piedi?” “Beh, sì” rispose Jimmy. “I tuoi genitori ti vogliono bene per le dita delle mani e dei piedi?” Banano guardò Jimmy di traverso. Mentre Jimmy pensava, un lotto di fuochi d’artificio a pois illuminò il cielo. “Beh, no. Cioè, credo che mi vogliano bene per quello che sono”. “E Francesca è tua amica per le tue dita delle mani e dei piedi?” “Beh, no. E’ mia amica perché ci piace parlare tra noi” disse Jimmy. Banano annuì soddisfatto. “Non ha davvero importanza come tu sia diverso o normale o una via di mezzo. Ciò che importa è chi sei, Jimmy. E io so che sei un bravo ragazzo che vuole bene al suo cane e dà retta ai suoi genitori” ancora una volta Banano guardò Jimmy di traverso, “il più delle volte”. “Credo che qualche volta risponda male” sospirò Jimmy, “dopo una giornata difficile a scuola quando mi prendono in giro”. “Perché credi che ti prendano in giro i bambini?” Banano lo guardò negli occhi, “credi davvero che sia soltanto per le tue dita che mancano?” Jimmy corrugò la fronte. “Non ne sono sicuro”. “I bambini felici sono crudeli con gli altri bambini?” “No” disse Jimmy, “i bambini felici sarebbero carini con me”. Jimmy guardò Banano. “Pensi che i bambini che mi prendono in giro siano infelici?” “Tu che ne pensi?” Jimmy rimase un istante in silenzio. “Può darsi. Ma cosa ci posso fare?” Banano sospirò. “Non è semplice e non posso darti una soluzione per il Mondo della Veglia. Ma ora che hai una prospettiva diversa, magari ti viene in mente qualcosa”. Jimmy scrollò le spalle. “Posso provare a essere gentile quando fanno i cattivi”. “Sembra una buona idea!” Banano sorrise. “Grazie, Banano!” Banano si appoggiò al tronco dell’albero. “Questo è il tuo sogno, quindi è l’ora che ti diverta un po’”. Indicò il campo. “Uh-oh, gli gnomi stanno tirando fuori la scatola di fuochi d’artificio formato balena. Probabilmente dovremo usare il parasole se non vogliamo fare una doccia di polvere”. Jimmy prese da Banano un parasole iridescente. “Non li puoi fermare?” Banano lo guardò incuriosito. “Se c’è una cosa che dovresti imparare dalla Terra del Sogno, è che nessuno controlla gli gnomi”. I due ragazzi si appoggiarono all’albero con i parasoli luminescenti sulla testa. Gli gnomi facevano un gran baccano correndo in circolo. Dalla scatola esplose un ringhio assordante e si alzò un arco di polvere di luce che dipinse il cielo di così tanti colori diversi che Jimmy non seppe contarli. Mentre sul parasole cadeva la polvere, Jimmy aveva sul viso il suo più grande sorriso. FINE
Il Tracciatore
04 Settembre 2025
Il suo odore gli impregnava i vestiti. Il tanfo era intenso, fetido e pressato a forza. Era abbastanza robusto da penetrare in profondità e riempirgli la sagoma della camicia e dei pantaloni. Mi sono ricordato che il suo odore si diffondeva come una bambola di cera fusa che formava pozze e rilasciava goccioline acide ovunque passasse. I suoi abiti non avrebbero eliminato l’odore neppure se strofinati con aceto. Non c’era lavatrice all’altezza del compito, nessun’acqua fresca di fiume avrebbe portato via l’odore. E’ così che l’ho trovato. Non è stata banale fortuna o raffinata abilità investigativa; tutto ciò che dovevo fare era seguire il mio naso. L’odore di decomposizione veloce mi ha condotto fuori dalla porta sul retro e nel portico. Ho pensato che fosse strano trovare una casa con un portico sul retro. Era come tutta la casa fosse stata girata. Non so perché ci ho pensato in quel momento. Non avrebbe dovuto avere importanza, ma il portico montato al contrario mi infastidiva. Ho allontanato il pensiero e mi sono concentrato sull’odore fetido. Era come una ferita purulenta. L’odore era rimasto attaccato alle colonne di legno del portico e puntava come una freccia verso il granaio. Mentre percorrevo il sentiero facendo scricchiolare la ghiaia sentivo il dolce profumo di rose, ma non bastavano a coprire il suo odore. Il profumo delicato delle rose veniva soffocato e strozzato dal repellente puzzo di marcio. Il miscuglio nauseante degli odori mi faceva lacrimare gli occhi. Mentre mi avvicinavo alla porta del granaio l’odore diventava più forte, ma non abbastanza da convincermi che lui fosse dentro. Dal momento che non avevo altre piste, ho spostato da una parte la porta scorrevole e ho guardato nell’oscurità. Non potevo proprio tagliare l’odore come un coltello, ma mi sembrava di poterlo raccogliere con un cucchiaio. Mi sono bastati pochi attimi per rendermi conto che aveva trascorso qui molte ore. Il tanfo era confuso, vecchio e nuovo, rancido e pungente. Ma non potevo avere la certezza che fosse qui ora. Poteva avere lasciato il granaio per il torrente. Giù nei pressi dell’acqua sarebbe stato molto difficile tracciare il suo odore. Sono andato avanti con cautela verso il centro del granaio quando ho colto un’ondata pungente che mi ha fatto quasi vomitare. Il puzzo dei vermi che gonfiano un corpo. L’aroma che si stava propagando mi ha detto che lui adesso era qui. Ho estratto la pistola e ho sentito che la fronte si imperlava di sudore. Mi sono mosso lentamente verso le stalle sul retro e sono stato sopraffatto dall’odore pungente. Non ci si poteva sbagliare. Ero a poche iarde dalla mia preda. Un’ombra lunga si è stagliata da sotto una lampadina che penzolava. L’avevo trovato, ma mentre un coltello mi affondava nel fianco, ho realizzato troppo tardi che mi aveva trovato prima lui.
Sacrificio in un Lampo
30 Agosto 2025
Il salto era stato più doloroso di quanto mi aspettassi e non riuscivo ad aprire gli occhi. Mentre scuotevo la testa mi ballavano delle macchie dietro le palpebre. Ho fatto un respiro affannoso e mi sono sforzato di aprire gli occhi ma una scossa improvvisa alla base del cervello mi ha fermato. Mi sono tirato su le palpebre con i polpastrelli. Al mio sforzo si sono inumidite ma il bruciore è diminuito di poco. Il ronzio nelle orecchie si è affievolito. Ho allungato le mani nell’oscurità e sono stato colto da un senso di vertigine sconfinato. D’istinto mi sono accovacciato e sono quasi caduto. Ho fatto altri tre respiri e il corpo mi si è stabilizzato. La cecità era passata ma la stanza era buia e indistinta. Ho sentito lei che gemeva e tossiva prima di aggrapparsi al mio braccio. “Dove siamo?” ha bisbigliato. La sua voce impaurita mi ha squarciato l’intestino. “Non lo so” ho risposto, “non sono riuscito a vedere le impostazioni prima che lui premesse l’interruttore”. “Oddio, Oddio!” ha gracchiato lei. Riuscivo a malapena a distinguere la mano che si è portata alla fronte. “Siamo davvero nella stessa decade?” Ho annuito prima di rendermi conto che probabilmente non poteva vedere i miei movimenti. “Sì, siamo ancora qui” ho detto, “lui non dovrebbe avere avuto il tempo di fare un calcolo complicato”. Nonostante la poca luce ho intravisto i segni. Sul muro aveva preso forma l’alfabeto alieno che aveva iniziato a comparire fin dal nostro primo viaggio interdimensionale. “Di qua c’è una porta!” ha gridato lei. Nella sua voce ho sentito un disperato tono di speranza. “Sembra blindata e la maniglia non gira”. La sua sagoma fremeva quando ho sentito che le tremava la mano. “Siamo in trappola! Non usciremo mai!” Ha sbattuto il pugno contro la porta e la stanza si è riempita di un suono sordo. “Eravamo così vicini e ora siamo intrappolati!” “Siamo stati in situazioni peggiori di questa” ho detto, “potrebbe averci trasferiti ma non ha modo di sapere esattamente dove siamo all’interno dell’edificio. Possiamo ancora portare a termine il lavoro”. Ho ripassato la mano sull’alfabeto, cercando di decifrare le strane lettere nel buio. Se ci riuscissi, il viaggio interdimensionale sarebbe possibile anche senza la macchina. “Dammi solo un minuto per leggere i segni”. “Come? Sarebbe troppo complicato da ricalcolare, perfino se non fosse troppo buio per vederli chiaramente”. Ho sentito risuonare un’altra eco quando ha dato un calcio alla porta. “Non possiamo viaggiare se non li possiamo leggere”. “Io posso leggerli” ho detto. “Non puoi usare la stessa sequenza logica di prima” ha detto, “per prima cosa dobbiamo capire il nuovo ordine”. Ho sentito che mi tirava il braccio. “Sono stati cambiati, non ti ricordi?” Ci ho ripensato. Avevo la mente confusa dal salto e faticavo a mettere a fuoco. Ho sentito un buco allo stomaco e ho realizzato. Aveva ragione, l’alfabeto stava cambiando. Prima che fosse possibile un salto avremmo dovuto decifrare l’intera frequenza. Ho cercato di sembrare fiducioso. “Comincerò e ce ne andremo da qui”. “Ci vorrà troppo tempo!” ha strillato dando calci alla porta. “Non ho il mio kit. Non abbiamo Frese per tagliare questa lastra d’acciaio!” Si è chinata e ha appoggiato le mani sulle ginocchia. Ho sentito che cercava di fermare l’iperventilazione in preda al panico. “Noi non abbiamo armi e lui avrà gli uomini che rivoltano l’edificio come un calzino. Per quel che ne sappiamo, potrebbero trovarci in pochi minuti!” Da dietro la porta è arrivato un suono ovattato. L’ho vista fare un salto all’indietro e accovacciarsi in una posizione di attacco. La sua forma indistinta ha iniziato a dondolare avanti e indietro mentre lei si preparava a scattare. Ma le sue abilità marziali non erano di alcuna utilità contro Stunners e Clappers. Il bagliore di un laser ha cominciato a tagliare la piastra d’acciaio. Se ci fosse mai stato un momento per dirglielo, sarebbe stato ora. Se dovessi tener conto della morale, avrei dovuto parlarle del piano di riserva. Ma se lo avessi fatto, avrebbe potuto interferire. Era del tutto normale. Quando ci si trova di fronte all’estremo sacrificio, nessuno vuole portarlo a compimento davvero. Non sentivo il peso nella tasca, ma nella mano sembrava pesante. Quando ho digitato il codice, lo schermo ha lampeggiato. La mia amara ricompensa è stato un unico cenno di riconoscimento. Nel buio potevo percepire il suo sguardo curioso. Il suo respiro accelerato, mosso dalla paura. Non lo so se mi ha visto premere il cilindro contro la colonna portante prima del rombo tonante e del lampo di luce accecante.
Memoriale perfido
23 Agosto 2025
Dal sentiero si alzava l’odore di terriccio fresco e di pietra bagnata, polverosa. Era freddo e umido, non abbastanza per indossare un cappotto pesante ma comunque lei avrebbe voluto portarne uno. La sua presenza al memoriale era necessaria, ma le dava i brividi. Tumuli su tumuli di terra soffice fiancheggiavano i sentieri per ricordare i caduti. Il suo ruolo in tutto questo era poco più di un’ombra lontana che si dissolve allo spuntar del sole. Aveva le spalle curve e tremava. “Vorrei davvero non dover essere qui” ha detto lei. “Dobbiamo percorrerlo fino in fondo” ha replicato lui. Le ha lanciato un’occhiata di traverso, “è la cosa giusta, sai?” “Sì, lo so. E’ solo che... non so”. Si è sentita osservata e si è voltata. Una donna ha abbassato subito gli occhi. La coda di coppie dietro di lei sembrava interminabile. Si è girata verso il compagno e gli ha sussurrato all’orecchio: “E’ inquietante”. Lui si è fermato e ha spalancato gli occhi. “Inquietante?” Lei è arrossita per le parole che aveva scelto. Per fortuna, erano entrambi troppo lontani dalla coppia successiva per essere stati uditi. Lui avrebbe capito che era stata legata ai Creepers? Poteva comprendere il suo scivolone? “Mi dispiace, è stato indelicato” ha detto lei. Lo ha guardato con un debole sorriso. Lui ha sventolato una mano. “Non ti preoccupare”. Lei ha sentito calare la tensione. Ha dato uno sguardo al percorso curvilineo e ha sospirato. “Beh, questo è importante”. Lui le ha lanciato un’occhiata. “Sono contento che tu sia qui”. Lei ha sentito salire alle labbra un sorriso sincero. “Grazie, ma davvero non mi sento in dovere di guidare il memoriale”. “Beh, penso che sia appropriato” ha detto lui mentre la guidava intorno a una pozzanghera, “tu ne facevi parte esattamente come chiunque altro”. Lei ha sentito un formicolio freddo alla nuca. Si è schiarita la gola. “Certo, ma non allo stesso modo. Non come te”. “No, non come me, ma tu ne eri decisamente parte”. Hanno continuato a camminare con passi leggeri e scricchiolanti. Le tombe erano state messe una dopo l’altra a formare una spirale. Il percorso sinuoso era diventato più stretto man mano che si erano avvicinati all’ultima tomba. Lei ha avuto un brivido incrociando gli sguardi delle persone sugli anelli più esterni. Quando fossero arrivati in fondo, sarebbero dovuti tornare indietro in mezzo alla folla? Sentiva la ressa di gente che si stringeva dietro di lei. “E’ una disposizione strana, non trovi?” “Strana?” ha detto lui alzando un sopracciglio. “Oggi sei piena di commenti insensibili”. “Mi dispiace” ha detto lei stringendogli la mano, “è solo che allestito in questo modo sembra una trappola”. Lui ha rallentato e l’ha guardata. “Uhm, che interessante scelta di parole”. Lei ha iniziato: “Con questo cosa vorresti dire?” Lui ha scrollato le spalle. “Oh, nulla”. “No, cosa vuoi dire?” lei si è accorta che il suo respiro accelerava. Lui ha emesso un respiro brusco. “Non è così che tutte queste persone sono finite qui? Non sono stati tutti intrappolati prima che accadesse?” Ha indicato il centro della spirale. “C’è rimasto soltanto un posto da riempire”. Lei ha guardato l’ultimo posto vuoto. “Di chi è quella tomba?” Gli occhi di lui erano di un nero opaco. “E’ la tua, ragazza traditrice”.
Banano n. 2: Maison Dolce Maison
16 Agosto 2025
*** La serie inizia con "Banano e il Mercato Magico" *** Una bella mattina, Babba il Clown era impegnato a scolpire la facciata della Clown Maison con la sua motosega. Era un attrezzo insolito per rimodellare, ma non per Babba. Lui maneggiava una motosega come un incantatore di serpenti saprebbe ballare il tango con un cobra reale. Ma Babba era distratto. Questo non andava bene quando si usa una motosega. L’ultima volta che aveva sognato a occhi aperti mentre tagliava carote per la cena la sua testa mozzata era volata per la cucina ed era finita nel focolare. A Pepita il Clown c’erano voluti parecchi minuti frenetici per liberargli i capelli dalle fiamme. Poi gli aveva ricordato che senza il suo aiuto la testa bruciata gli avrebbe guardato per sempre all’indietro. Babba avrebbe fatto a meno del rimbrotto. Babba posò la motosega e ammirò il suo lavoro. L’ultima faccia di clown che aveva scolpito nella Clown Maison era un tocco di classe. Si intonava bene con le altre quarantasette facce di clown che aveva scolpito. Sì, la Clown Maison stava venendo bene. Clown scolpiti, demoni, gnomi e unicorni. Era davvero un castello degno di un re. Anche se era una Maison per la Famiglia dei Clown. Ma Babba non poteva passare tutto il giorno a ammirare il suo lavoro, aveva in mente altre cose. Babba entrò nella Clown Maison e gli occhi gialli gli caddero su Davy il Clown. “Perché il mio figliolo è impolverato di farina? Lo stiamo cuocendo come dessert?” Alice la NON Clown grugnì e gemette spingendo il barile per l’acqua piovana al centro della stanza. Fortunatamente era stato dotato di ruote per un’occorrenza del genere. Tirò un sospiro sotto la frangia, che ondeggiò e le ricadde sugli occhi. “Papà, l’hai fatto di nuovo” disse Alice. Rimproverò suo padre, “hai dimenticato di chiudere la finestra prima di metterti a scolpire e Davy ti stava guardando”. Babba cercò una scappatoia filosofica nella sua mente dimensionalmente limitata. “E tu non hai chiuso la finestra?” chiese Babba con le mani sui fianchi. Forse poteva scaricare la colpa su chi era veramente responsabile di aver inondato di polvere il suo prezioso angelo. Alice indicò la finestra chiusa. “L’ho fatto, ma non in tempo”. Prese Davy per le caviglie e lo inzuppò nel barile per la pioggia. Lo tirò su e lui ridacchiò. Lo immerse altre due volte e Davy e Alice risero come solo un fratello Clown e una sorella NON Clown potrebbero. Alice fissò il padre con gli occhi socchiusi: “La prossima volta ricordati di chiudere la finestra prima di scolpire la Clown Maison”. Babba annuì. Forse avrebbe dovuto chiudere la finestra, ma era stato rallentato dalla sua musa. Non era davvero colpa sua. La musa gli saltava addosso da dietro e in pratica avviava la motosega al posto suo. Sì, era così. Non era colpa sua. Non aveva avuto il tempo di pensare a finestre aperte e a marmocchi che venivano ricoperti di polvere. La musa aveva reclamato una faccia di clown e lui aveva risposto. Dopo tutto, nel profondo era un artista. “Moglie Pepita” chiamò Babba dalla cucina, “dov’è Banano?” “Esattamente dove l’hai lasciato” replicò Pepita. “E dove sarebbe?” “Nella Stanza delle Bambole, è ovvio” disse Pepita e aggrottò la fronte, “Marito Babba, sei talmente sbadato. Se non ti ricordassi dove hai lasciato la testa ogni volta che te la tagli, staresti sempre senza, sdraiato sul pavimento”. Babba sospirò. Sembrerebbe che non fosse immune alle seccature anche quando aveva la testa. “Ma stavolta non l’ho tagliata” protestò Babba. Aveva trascurato di dirle che quando aveva scolpito la faccia numero quarantotto era andata bene per un pelo. Pepita alzò un sopracciglio. “Ne sono certa” disse con un tono di voce particolare, “beh, vai di sopra a vedere che fa Banano”. Babba ignorò il suo sarcasmo e salì la rampa di scale con la sua motosega. Poi su per altre due rampe. Poi aprì una finestrella e si arrampicò sul cornicione. Poi strisciò su di esso finché arrivo a una porta esterna che un tempo era stata una porta interna. Babba sgusciò dentro la porta interna-esterna e fece la scala a chiocciola finché non ebbe un capogiro. Alla fine, raggiunse la Stanza delle Bambole. Fu incredibilmente scomodo. Se solo non avesse scolpito tutte quelle facce sull’Ala Est. Avrebbe avuto un’Ala Est ancora pienamente agibile, per non parlare di una scala interna e una porta per arrivare alla Stanza delle Bambole. Ma non aveva alcun senso piangere sul latte versato. Dopo tutto, aveva le sue facce di clown. “Banano, mio giovane amico” proclamò Babba, “è ora di fare un restyling!” Banano lo guardò con occhi blu scintillanti. Babba ebbe la certezza di aver visto un cenno di approvazione. Banano era nella sua nuova casa e quale momento migliore di questo per avere un restyling? “Stai fermo lì, Banano” disse Babba. Avviò la motosega e con un colpo deciso si tagliò via la testa. Il sangue schizzò addosso a Banano, o almeno così sperava Babba. Non riuscì proprio a vedere cosa stava accadendo perché la sua testa era caduta a faccia in giù. Brancolò alla cieca cercando con le mani la testa mozzata. “Mani” borbottò la testa mozzata di Babba, “vi ho sentite toccarmi i capelli. Un po’ più a sinistra”. Le dita di Babba pizzicarono a mala pena un filo di capelli. Per fortuna, la testa mozzata di Babba era insolitamente leggera e il filo di capelli non si spezzò. Due mani guantate gli tirarono su la testa e gliela rimisero sulle spalle. Con un colpetto del polso, Babba si avvitò la testa nella direzione giusta. O così sperava. Babba guardò Banano imbrattato di sangue. Il ragazzo era un capolavoro che neppure Hieronymus Bosch potrebbe superare. “Banano, ragazzo mio, fin qui tutto bene” disse. Babba cercò i suoi pigmenti più scuri e più pregiati e strisciò una sbavatura perfettamente diritta sul volto di Banano. “Ah!” esclamò Babba tenendo alte le mani insanguinate e fuligginose. “Sei perfetto! Vieni, Banano, è il momento di farti vedere alla Famiglia dei Clown”. Babba tornò sui suoi passi con Banano in braccio. Scendere per la scala a chiocciola non dava le vertigini come a salire. Le cose furono un po’ più complicate sul cornicione esterno ai resti dell’Ala Est, ma con passo sicuro come una capra di montagna Babba si mise in salvo dimenando le sue gigantesche scarpe da clown. Sgusciò dentro la finestrella e scivolò giù con un tonfo per le tre rampe di scale. “Ta-da!” annunciò Babba. “Vi presento Banano in stile Clown!” La Famiglia di Clown fece ooohhh e aaahhh. Banano era un capolavoro. Rosso scarlatto, bianco e nero. Babba era sicuro che Banano addirittura lo superasse in bellezza, il che era piuttosto impegnativo, considerato che Babba era un mostro come nessun altro. “Adoro il suo nuovo look” disse Pepita. Guardò suo marito con amore sanguigno. Si tenevano la mano attraverso la motosega. Pepita si passò un dito sul ghirigoro al naso e poi toccò Banano, “adoro specialmente la sbavatura diagonale che gli attraversa la faccia”. Babba aggrottò la fronte. “Cosa intendi per ‘diagonale’?” chiese, “gli ho macchiato la faccia con una linea nera diritta”. “No papà, non l’hai fatto” disse Alice. E sospirò, “a te sembra dritta perché ti sei avvitato la testa con un angolo di quarantacinque gradi”. “Allora è per questo che sto fissando l’angolo della stanza anziché Banano!” Babba si dette un rapido giro alla testa. “Ah! Molto meglio!” Babba guardò Banano con amore sanguigno. Sì, la sbavatura non era una linea diritta come aveva progettato, ma su di lui era ugualmente perfetta. Avvertiva una sensazione di scintillio proveniente da Banano e sapeva che il bambolotto era felice. Ora toccava a Banano lavorare alla sua speciale magia del sogno. FINE
Storie di Steampunk – Dirigibili n. 4 – Decollo
09 Agosto 2025
*** La serie iniza con "Dirigibili n.1: Libellula" *** Mi svegliai di soprassalto al suono di una sirena a manovella. Prima che la mente fosse consapevole delle azioni, armeggiai con la mano intorno al comodino per trovare la luce a gas. Nel torpore del sonno rovesciai il pacchetto dei fiammiferi e si sparpagliarono sul pavimento. Appena la mia gamba malata toccò le assi di legno, inviò un dolore al dente. Frugai con le mani fino a trovare i fiammiferi. Pochi istanti dopo, la luce a gas illuminò l’oscurità. La gamba mi pulsò e fui grato di non poter vedere sotto i bendaggi. L’odore del pus mi nauseava. Avevo trascurato le erbe e le compresse che Virginia aveva preparato per me. Quando fosse tornata, mi avrebbe rimproverato. Ma mia figlia aveva ragione. Dovevo rafforzare il mio corpo per la lunga guerra che avevamo davanti. Ci fu un colpo fragoroso. “Capitano Tyler!” La voce soffocata del Primo Ufficiale Edward Keenan filtrò dalla porta. “Signore! Le mongolfiere di ricognizione hanno avvistato le Dreadnought della Darkhouse & Sons sul Tamigi!” Dannati nemici! Le Dreadnought erano in rotta un giorno prima di quanto le nostre spie ci avevano detto di attenderle. Erano dirigibili all’avanguardia che non avremmo potuto eguagliare. Le turbine a vapore e i fucili pesanti delle Dreadnought erano anni avanti rispetto a quelle del nostro dirigibile. La nostra unica difesa era la rischiosa azione di bloccare la loro entrata su Londra e pregare che le bombe incendiarie di Sarah Hunter centrassero gli obiettivi. Gridai alla porta: “Keenan, i preparativi dell’equipaggio a terra?” Le doghe di quercia ovattarono la voce di Keenan: “Hanno finito in serata. Il Proud Gale è pronto per l’ispezione pre-volo all’involucro del gas”. “Keenan, giovanotto” sussultai nel mettere gli stivali, “portala alla piattaforma di lancio, ci vedremo lì”. Esitò un istante prima di parlare: “Ma la vostra gamba, Signore.” “Ora, Primo Ufficiale!” “Sissignore!” Il suo veloce galoppo si dissolse rapidamente. Sospirai e mi misi una mano sul capo. Keenan era un bel giovanotto e sarebbe dovuto essere a casa con la moglie incinta e il bimbo piccolo. Invece, si sarebbe trovato ad affrontare dirigibili avanzati sul cimelio al mio comando. Meritava di meglio. Tutti a Londra meritavano di meglio. Prima che tutto questo finisse sarei stato probabilmente la morte di Edward Keenan. E la morte di molti altri. Ero un vecchio con una gamba ferita. Non ero adatto a guidare la nostra difesa ma la nostra flotta era gravemente priva di uomini con esperienza. Non ero mai stato fra i capitani migliori. Le mie capacità tattiche erano sempre state comuni. Solo la mia grande esperienza e i nervi di acciaio mi avevano fatto vincere battaglie. Mi ritirai molto prima che Darkhouse & Sons iniziassero la conquista omicida dell’Inghilterra. Rientrai per servire la mia grande città. Mi preoccupai poco dell’onore e dei titoli e presi servizio come capitano e non come ammiraglio. Nella terza battaglia dell’aria patii schegge di cannone nella gamba. Neppure Virginia me la poté guarire. Disse che avevo bisogno di erbe e di riposo. Avevo tempo a malapena per le erbe e niente tempo per il riposo. Mi precipitai per il corridoio in pietra senza il mio bastone. In aria, un bastone non serviva a nulla. Sul ponte del Proud Gale la mia sola speranza di tenermi in piedi era di aggrapparmi a un corrimano o al timone. Avrei tenuto Kennan al timone per più tempo possibile. Occorreva che il ragazzo imparasse alla svelta e durante la battaglia io avevo necessità di fare con calma. Mi vergognavo a pensare che avrei avuto bisogno di riposo finché non fossimo nel vivo di questa, ma la mia gamba non mi avrebbe permesso di più. Le luci dell’alba mi circondarono lentamente i piedi. Guardai in alto e una folata di vento quasi mi portò via il cappello da capitano. Tutte le volte che guardavo lo spettacolo mi sentivo umiliato. Dozzine di dirigibili attraccavano alle banchine galleggianti sul Tamigi. Aspettavano il loro turno per librarsi sopra la piattaforma per un’ultima ispezione dell’involucro di elio prima di svolazzare in battaglia. Di solito un capitano sale a bordo della sua nave da terra, ma io ero troppo lento nei movimenti. Mi sarei imbarcato sul Proud Gale dal ponte di ispezione. “Buongiorno, Capitano Tyler” una silhouette si stagliò da una cima di ormeggio che si alzò in aria di cinquanta piedi. Anche con gli occhi socchiusi mi ci volle un momento prima di riconoscere la figura flessuosa, “Capitano Hunter. Buongiorno a voi, signora”. Le labbra di Sarah si arricciarono nel portare alla bocca un cigarillo. Aspirò a fondo e rilasciò una nuvola di fumo increspata. Era nella sua divisa e pelli da volo, gli occhiali sulla testa e il cappello rosso da volo che le pendeva dal collo. Mi si avvicinò: “Sembra che Darkhouse & Sons voglia finire in fretta questa guerra”. Pensai che fosse la cosa più curiosa da dire. “Avevate previsto diversamente, Capitano Hunter?” “Sì, signore” Sarah mi affiancò camminando verso le intelaiature, “mi aspettavo che Lord Darkhouse giocasse con noi al gatto e al topo”. Mi fece un sorriso malizioso. “Poi, al momento giusto, Lord Darkhouse ci avrebbe fatto a pezzi e portato a casa come trofei”. Che cosa curiosa da dire. “Perché dovrebbe fare una cosa talmente sciocca? Una guerra si vince quando le battaglie sono rapide e decisive”. “Con rispetto Capitano Tyler, voi non conoscete Lord Darkhouse” disse lei mettendo la mano sulla ringhiera. Rallentò il passo per adattarlo alla mia salita, “lui non vuole una vittoria rapida” si fermò e mi fissò negli occhi, “lui vuole nutrirsi delle nostre anime”. Sentii la scossa gelida delle sue parole. Stava insinuando che Lord Darkhouse fosse una sorta di adoratore del diavolo? Cosa sapeva dei suoi veri obiettivi? Avevo appena aperto bocca quando lei riprese a parlare. “Sembra che il Proud Gale abbia avuto il permesso di decollare” disse Sarah e fece il saluto all’ispettore, “vi lascio al vostro equipaggio”. Passai la mano sui miei baffi ramati. “Signora, per quando è previsto il vostro volo?” “Subito dopo che sono decollati tutti i cacciatorpedinieri e le fregate”. La sua treccia sferzò al vento. “Il Darner non ha capacità di vapore sufficiente a gestire un volo sostenuto”. Annuii. “La seconda carica incendiaria si trova nelle gambe di presa?” “Sì signore, ho fatto una seconda prova di volo” Sarah scosse la testa, “rallenta fortemente il Darner perciò devo usare il Proud Gale come copertura finché non ho liberato la prima carica”. Sarah mi rivolse quelle parole con rammarico, quasi vergognandosi di doversi nascondere dietro di noi. Ma era lei più di tutti a correre i rischi maggiori. Il Darner non aveva l’armatura per difendersi dal fuoco della Gatling. Un colpo di cannone l’avrebbe spazzata via dal cielo. Chinai la testa. “Il Proud Gale è al vostro servizio, signora”. Sarah fece il saluto. “Per una Londra libera”. Risposi al saluto. “Per una Londra libera”. La guardai scendere gli scalini di legno. Sebbene fosse una donna fatta, aveva conservato la giovinezza, l’andatura saltellante che ricordavo. Scossi la testa e zoppicai fino all’ampio ponte di ispezione per salire a bordo del Proud Gale. Nel rispondere al saluto di Keenan, riflettevo sulle parole di Sarah riguardo a Lord Darkhouse. Che genere di nemico stavamo affrontando? E cos’altro sapeva Sarah Hunter? FINE
Storie di Steampunk – Allister Davies n. 4: Pleiadium
02 Agosto 2025
*** La serie iniza con "Allister Davies n.1: Londra in Fiamme" *** Il vapore sibilò dentro un tubo che vibrava come un cobra reale. Il Professore Allister Davies buttò giù la leva e uscì dalla gabbia di Faraday barcollando. Fulmini bluastri gli lampeggiarono attorno come banshees sghignazzanti. Avanzò con pesantezza, alla velocità che potevano portarlo le sue gambe decrepite. Girò intorno al Pellegrino del Tempo e arrivò in cima alla caldaia a vapore. Con in mano uno straccio, tirò la valvola di rilascio. Dalla sommità della canna di scarico del vapore si sprigionò una nuvola bianca che lentamente si dissolse. I fulmini blu cessarono all’improvviso, lasciando soltanto odore di ozono. Davies si inginocchiò dinanzi al tubo e aggrottò la fronte. Un dado che bloccava il tubo si era allentato. Era il momento di fare una manutenzione completa al Pellegrino del Tempo. Controlli programmati e riparazioni erano basilari per il Pellegrino del Tempo, più che per qualsiasi altra sua invenzione. Davies si maledisse per la sua negligenza. Aveva trascorso troppe giornate frivole vagando per Londra a bere nei bar. Peggio ancora, aveva iniziato a bere cognac mentre rielaborava il Teorema dell’Increspatura. Lo aveva stravolto completamente. La sua ossessione di risolvere la tragedia di Londra nel 2050 non si sarebbe placata. Era un tormento continuo. Davies non riusciva a capire come nove viaggi nel futuro gli avessero sempre mostrato la medesima catastrofe. Nemmeno un cambiamento. Era come se il disastro fosse stato profetizzato e poi scolpito nella pietra. Ma a Davies era venuta un’altra idea. Avrebbe potuto chiedere aiuto. Non a Edgar Payne, ma al fisico teorico che aveva incontrato nel 2040. Aveva fatto quel viaggio solo una volta, era accaduto prima del suo primo viaggio nel 2050. In quella Londra c’era conflitto, ma non guerra. La città era intatta sebbene il fisico gli avesse parlato di un’immensa tristezza. A Davies era sembrato tutto molto curioso. L’incontro casuale con il giovane scienziato, biondo e straordinariamente alto. La sua strana cadenza e i suoi penetranti occhi blu parevano ultraterreni. E la sua padronanza della matematica era ben oltre la capacità di comprensione di Davies. Il fatto più peculiare era che il fisico non sembrava scioccato dall’arrivo di Davies. Era come se lo stesse aspettando. Il fisico del futuro non aveva usato alcun titolo. Gli aveva dato solo un nome: Pleiadium. Benché sembrasse latino, per Davies era un nome completamente insolito. Ma le conversazioni con Pleiadium erano talmente affascinanti che Davies aveva rapidamente dimenticato la stranezza di tutto ciò. Quando Davies ha detto al fisico che si tormentava con il concetto di tempo, Pleiadium gli ha detto di immaginare l’intero universo come una gigantesca bolla. Al centro della bolla c’era Davies stesso. Ovunque guardasse, Davies doveva immaginare il futuro e il passato. Sopra, sotto, sinistra e destra. Il passato dietro di lui, il futuro davanti a lui. Era tutto accaduto, stava accadendo e sarebbe accaduto. Davies si è sentito come se avesse inalato vapori di mercurio. Davies aveva interrogato Pleiadium riguardo al paradosso dei viaggi nel tempo e si era chiesto come avesse fatto a non inciampare in uno di essi. L’alto uomo biondo ha risposto che forse Davies lo aveva già fatto ma non se ne era accorto. Quando ha insistito sulla questione con Pleiadium, il fisico ha agitato la mano davanti a un pezzo di vetro, che con stupore di Davies a un tratto è sembrato prendere vita. Il vetro mostrava una visione tridimensionale di immagini che camminavano e parlavano e sembravano vive proprio come lui. Davies poteva solo supporre che fosse una sorta di Cinetoscopio avanzato. Con una spiegazione sbalorditiva, Pleiadium ha dimostrato che altri viaggiatori del tempo potevano avere già modificato il passato, ma per qualsiasi umano sarebbe stato impossibile saperlo. La conversazione con Pleiadium era stata una scossa per la sua mente. Prima che Davies accendesse la caldaia a vapore per tornare nella Londra del 1870, Pleiadium gli aveva fatto un dono. Un cristallo inciso che era come un cervello sintetico. Aveva fornito a Davies un semplice schema per installarlo dentro l’automa. Ma aveva avvisato Davies che non avrebbe dovuto farlo vedere a nessuno. Conteneva conoscenze proibite agli umani. Ha detto che confidava nel fatto che Davies lo custodisse e un giorno lui sarebbe tornato a reclamarlo. Ancora un altro enigma. Un attrezzo fece rumore cadendo a terra e Davies si svegliò dal suo sogno a occhi aperti. Prese la chiave e strinse il dado che bloccava il tubo. Davies afferrò un tubo sporgente e si tirò su con un gemito. Era troppo vecchio per questo lavoro manuale. Avrebbe dovuto chiedere a Payne di aiutarlo con le riparazioni. L’orologio mostrò che erano quasi le dieci. Presto Payne sarebbe arrivato al laboratorio per incontrarlo. Non ci sarebbe stato il tempo di rischiare un altro viaggio, per chiedere a Pleiadium cosa si potrebbe fare per Londra. Teoricamente poteva tornare prima che Payne arrivasse, ma il pellegrino del Tempo era molto volubile con i minuti. Il soriano miagolò con disapprovazione. Davies aveva dimenticato di riempirgli di pesce la ciotola. Arrancò fino alla ghiacciaia e tolse un pezzo di prima scelta. Il gatto bianco e arancione fece le fusa in segno di approvazione. Davies guardò il suo amico peloso che masticava soddisfatto. Il mantello del gatto si era ispessito e il corpo gli si era riempito. Il soriano era decisamente più in salute. Aveva gli occhi vispi. Per fortuna la sua voglia di cacciare era meno robusta, ora che mangiava regolarmente. Davies era stufo di trovare topi decapitati alla porta. L’orologio batté le dieci. Ma Davies non pensava a Payne, stava ancora pensando a Pleiadium. La vasta conoscenza del giovane riguardo al tempo sembrava impossibile. Lui viveva a centosettanta anni nel futuro; pertanto, si poteva supporre che l’umanità avesse fatto grandi progressi nella fisica e nella matematica. Tuttavia c’era ancora qualcosa di trascendente nel suo sapere. Pleiadium era rimasto calmissimo quando il Pellegrino del Tempo si è materializzato nel suo laboratorio. In qualche maniera era stato pronto e in grado di rispondere a qualsiasi domanda. Ma il più grande mistero del loro dialogo girava intorno a una singola parola. L’utilizzo di quella parola tormentava Davies. Cosa intendeva dire il fisico quando ha affermato che il passato poteva esser già stato modificato ma gli umani non lo saprebbero? Perché il sapere del cristallo inciso era proibito agli umani? E, cosa più inquietante, perché Pleiadium parlava degli umani in terza persona, come se lui non facesse parte dell’umanità? FINE
Banano: Il Mercato Magico delle Cose Usate con Delicatezza
26 luglio 2025
Banano era un creatore di sogni, anche se alcuni potrebbero avere la tentazione di dire che non era altro che un bambolotto. Dopo tutto, era fatto di stoffa, di imbottitura e di plastica. Ma Banano era molto di più che l’insieme delle sue cuciture. Era davvero molto singolare. Anche se silenzioso in compagnia; quando nessuno guardava poteva comunicare facendo cadere palline o rovesciando tazze. E poteva parlare nei sogni come sanno fare solo le anime magiche. Da dove veniva Banano? Nessuno lo sa per certo, ma sappiamo quando Banano ha deciso di diventare un creatore di sogni. Sicuramente Banano potrebbe essere sempre entrato nel regno dei sogni, ma prima di incontrare la Famiglia dei Clown non aveva motivo di farlo. Poi un bel giorno, i Clown e Banano si incontrarono. Dunque, fatemi dire qualcosa sulla Famiglia dei Clown. C’era Pepita, il Clown dai riccioli diabolici, occhi stralunati, e ghirigoro sempre presente sul naso. Sì, il ghirigoro era molto importante, ma non chiedetemi perché. Almeno, non ancora. Pepita aveva voglia di molti colori diversi, ma il giorno in cui ha incontrato Banano era vestita di nero profondo e rosso sangue. Babba il Clown, marito amorevole di Pepita e armato di motosega. Aveva capelli rossi lisci e fiammeggianti, occhi gialli e viso a chiazze bianco e nero. Nessuno ricorda cosa indossava il giorno che ha incontrato Banano perché era stato schizzato col sangue. Ma su questo torneremo dopo. Davy il Clown, figlio loro. Con gli occhi blu e i capelli biondo dorato, era il ragazzo più bello. La sua risata contagiosa rallegrerebbe il cuore a chiunque. Era il genere di ragazzo che ogni genitore vorrebbe. Nessuno ricorda se lui ci fosse quando Pepita e Babba hanno incontrato Banano. Ma questo non conta molto, in quanto Davy e Banano sono diventati subito amici qualche tempo dopo. Poi c’era la loro figlia, Alice la NON Clown. Sì, una NON Clown in una Famiglia di Clown. Lo so che suona assurdo ma è vero. Aveva una corporatura snella, un sorriso timido e una frangia perfetta che le pendeva sugli occhi. Era molto carina. Neppure Pepita e Babba potevano eguagliare la sua bellezza. E i Clown erano molto belli, se vi piacciono i mostri e i demoni. Ma ho divagato... Un bel giorno, Moglie Pepita e Marito Babba fecero un giro al Mercato Magico delle Cose Usate con Gentilezza. E può darsi che Davy fosse con loro, nessuno se lo ricorda. Ma non Alice la NON Clown. Lei non ci andò. Di questo siamo certi. Comunque, il mercato poteva non sembrare spettacolare, ma in realtà lo era. Era pieno di cristalli, gingilli e cose magiche come unicorni rosa, capre che viaggiavano nel tempo e piccioni che sapevano recitare il Kama Sutra al contrario. Mentre si facevano strada nel pieno della calca, Pepita e Babba (e forse Davy, ma non Alice) si ritrovarono completamente imbottigliati come un turacciolo nel verso sbagliato. Normalmente, in simili circostanze Pepita avrebbe preso la motosega di Babba e si sarebbe aperta un varco. Il sangue che schizza e gli arti che volano erano piuttosto caotici, ma il sentiero attraverso la foresta di corpi era molto vantaggioso. Proprio mentre Pepita stava per tirare la corda di avviamento, Babba (o forse Davy, ma senza dubbio non Alice) indicò un uomo insolito. Era di carnagione scura, affascinante nella sua aria malinconica. Babba dette una gomitata a Pepita. “Moglie Pepita” disse Babba. “Cosa pensi di lui?” Pepita posò la motosega tagli-arti. “Marito Babba, sembrerebbe un incantatore. O anche un mago”. Babba annuì. Poi inarcò un sopracciglio. “Pensi che abbia qualcosa che ci serve?” “Intendi una catena di scorta per la motosega taglia-arti?” chiese Pepita. “No” disse Babba, “pensavo a qualcosa di più magico”. Pepita si passò un dito sul ghirigoro al naso. “Suppongo che ci sia un solo modo per scoprirlo”. Babba e Pepita, e forse Davy, ma di certo non Alice, si avvicinarono all’uomo misterioso. “Ehilà, venditore di articoli magici" disse Pepita, “qual è il tuo mestiere?” “Gitano” rispose. “Hm” disse Pepita, “non è un gruppo etnico?” “E’ anche quello” disse il Gitano, “a noi Gitani piace ricoprire più ruoli”. Pepita e Babba si guardarono a vicenda e scrollarono le spalle. Quella del Gitano era una risposta come un’altra. Perché un Gitano non potrebbe essere sia un gruppo etnico che un mestiere? Ma ho divagato... “Cosa ci puoi far vedere, bel Gitano, signore” chiese Babba. “Forse vi può interessare un pavone meccanico che risorge dalle ceneri” disse il Gitano. “Vuoi dire una fenice?” chiese Pepita. “E’ anche quello” disse il Gitano. Pepita e Babba si guardarono a vicenda e scrollarono le spalle. Quella del Gitano era una risposta come un’altra. Gli occhi gialli di Babba guardarono il carretto magico. “Cos’altro ci puoi far vedere?” “Che ne dite di un braccialetto che viaggia nel tempo?” Il Gitano allungò un lungo bracciale in ottone con un orologio, ingranaggi, bobine e strane fiale di liquidi variopinti. “Quanto può andare indietro nel tempo?” chiese Babba. “Sei minuti” disse il Gitano. “Ne abbiamo già uno che va indietro di sette minuti” disse Pepita. Si tirò un ricciolo rosso fiammante, “non hai qualcos’altro?” Il Gitano indicò un’ampia rastrelliera. “Ho queste bambole”. “Cosa fanno?” chiese Babba. I suoi occhi gialli scorsero sulla porcellana, il tessuto e le facce dipinte. “Dipende” disse il Gitano. “Dipende da cosa?” chiese Pepita. “Dipende da cosa vuoi tu” disse il Gitano. Pepita guardò Babba. I suoi occhi gialli incontrarono gli occhi spaiati, incrociati a spirale di lei. Pepita si passò un dito sul ghirigoro del naso. “Cosa ne dici, Marito Babba?” Babba annuì. “Moglie Pepita, penso che dovremmo prenderne una” la guardò con amore sanguigno. Si tenevano la mano tramite la motosega. “Sig. Gitano, prendiamo una bambola!” annunciò Pepita. Per festeggiare accese la motosega e la fece roteare tagliando accidentalmente la testa di Babba. Ma niente paura, Babba era molto abile a riavvitarla. Se il Gitano venne turbato dall’improvvisa decapitazione, non lo diede a vedere. Neppure dopo che era stato schizzato dal sangue. “Quale bambola?” chiese. “Sono indecisa” disse Pepita. Curiosò, “Marito Babba, dove sei andato?” “Moglie Pepita, la mia testa staccata è quaggiù”. “Dove?” “E’ rotolata sotto la bancarella”. Pepita pescò qua e là sotto le doghe di legno e tirò fuori la testa insanguinata. La sollevò per guardarlo amorevolmente negli occhi gialli. “Marito Babba, che bambola dobbiamo scegliere?” “E’ difficile dirlo mentre guardo i tuoi bellissimi occhi spaiati” disse la testa staccata di Babba. “Oh, giusto” Pepita girò la testa gocciolante di sangue verso le bambole, “ecco qua”. “Quella” disse la testa staccata di Babba. Sebbene potesse soltanto indicare con gli occhi, il Gitano capì. “Ottima scelta” disse il Gitano. “Come fai a saperlo?” chiese Pepita. “Perché l’ha scelta tuo marito” rispose il Gitano. Pepita guardò la testa staccata di Babba con amore sanguigno. Babba l’avrebbe abbracciata ma non sapeva dove gli fossero andate le braccia. “La prendiamo” disse Pepita. “Quanto?” chiese la testa staccata di Babba. “Dieci pezzi d’oro” disse il Gitano. “Sembra un affare” disse Pepita con una nota particolare nella voce. La testa staccata di Babba ignorò il sarcasmo di Pepita. “Sig. Gitano” chiese, “come si chiama la bambola?” “Ah” disse il Gitano, “ora è questa la domanda. Ma non è una domanda che potete rivolgere a me. Dovete chiederlo alla bambola”. Pepita e la testa staccata di Babba si guardarono a vicenda. Il Gitano era veramente saggio. “Marito Babba” disse Pepita, “pagalo”. “Moglie Pepita, lo farei se potessi, ma il mio corpo giace a terra da qualche parte dietro di me”. La testa staccata di Babba cercò di ruotare gli occhi per guardare dietro ma gli occhi riuscivano solo a guardare in alto. “Marito Babba, perché guardi il cielo?” chiede Pepita. “Non lo faccio” disse la testa staccata di Babba, “stavo cercando di indicare dietro di me, ma è piuttosto difficile quando non si hanno le braccia”. “Ci sta” disse Pepita. Gli mise la testa tagliata fra le mani che si dimenavano. Babba si riavvitò la testa con una torsione. “Moglie Pepita, perché vedo soltanto ciottoli?” “Ti sei avvitato la testa al contrario” sospirò Pepita, “se non ti ricordassi io come riavvitarla correttamente, saresti sempre a guardare dietro di te. O a fissare i ciottoli”. Babba si dette un giro alla testa di centottanta gradi. “E’ molto meglio”. Si alzò e mise la mano nella borsa. Babba contò dieci pezzi d’oro. “Grazie” disse il Gitano. Babba sollevò la bambola. “Bene, mio bel ragazzo, come ti chiami?” appoggiò l’orecchio alle labbra immobili della bambola. Babba chiuse gli occhi. Pochi istanti dopo annuì. “Banano. Il nome della bambola è Banano”. Pepita carezzò la testa alla bambola con amore sanguigno. “Banano”. Con Banano in braccio, Pepita e Babba (e forse Davy, ma di certo non Alice) camminarono verso il tramonto. O tentarono di farlo, perché c’era troppa gente in strada che sbarrava loro il passaggio. Pepita avviò la motosega. Ma questa storia è per un’altra volta. FINE Ringrazio tanto Pepita, Babba, Alice e Davy. Grazie a Camilla per il braccialetto che viaggia nel tempo. E un ringraziamento molto speciale a Banano, il creatore di sogni.
Scivolando
21 luglio 2025
Facevo un passo dopo l’altro ma mi sembrava di non andare da nessuna parte. Sentivo la mano che mi scivolava lungo il muro mentre le gambe mi tradivano. Mi tremavano i denti e sentivo l’occhio sinistro che si contraeva mentre col mento sbattevo al suolo. Potrei avere avuto un vuoto di memoria ma tutto ciò che ricordo era che gridavo al cielo delirante. “C’è il ghiaccio sulle scale. Togliete quel dannato ghiaccio dalle scale!” Le cameriere mi correvano intorno come gazze gracchianti. Le ho cacciate via e ho allungato la mano sul muro per tirarmi su da solo. Mi sono toccato il mento sanguinante con le dita, guardando dalla finestra per vedere il prato verde. Il sole bruciava come una fornace ma io avevo molto freddo. Perché la mia vista all’improvviso si è indebolita, se tutto era così dannatamente brillante? Mi sono svegliato, credo. Ma se l’ho fatto, allora mi sono svegliato dentro un arcobaleno sfocato. Oppure dentro a un caleidoscopio. Potrei essere stato in una vasca di vetro colorato. Ma non la sentivo fredda e liscia come il vetro, per cui può darsi che stessi dormendo. Ma nel sogno c’erano forme che parlavano, che si piegavano e riflettevano la luce multicolore. Le forme stavano parlando. “... sentite meglio, Mr. Moriarty? Avete bisogno di riposo a letto e delle vostre pillole”. “Non voglio le pillole”. Ho detto questo? Sentivo il suono che mi usciva dalla bocca. Ma non potevo dire che le labbra mi si muovessero. Le forme hanno preso forma, sagome logore e maligne. Poi le ho viste. Due cameriere e un’infermiera. “Oh, andiamo Mr. Moriarty. Non fate l’austero Augustus”. “Augustus? Chi è costui?” “Oh, Mr. Moriarty. E’ solo un modo di dire” canticchiò l’infermiera. “Qualcuno deve prendere le sue pii-illole!” Non esisteva nessun modo di dire come ‘l’austero Augustus’, non è vero? Sarei dovuto essere io? Ero io Augustus Moriarty? Perché avevo due cameriere e un’infermiera? Ero ricco? Gli arredi sembravano costosi ma erano obliqui. La stanza era larga ma troppo lucida. C’era del ghiaccio sulle scale. “No! Non ingerirò nulla della vostra immondizia. Prendetemi, prendetemi...” Mi sentivo dibattere come un pesce molliccio. Oppure come un mollusco coi tentacoli schiacciati. Sentivo che scivolavo via. C’era quel dannato ghiaccio levigato. “Finirà in un batter d’occhi. Solo una pillolina nel lobo. Poi una punturina di pillola al cuore”. “Cosa? Che significa? Cos’è quello?” L’infermiera teneva qualcosa su di me. Stavo scivolando all’indietro sul ghiaccio nero. “La mia vista, la mia vista!” “E’ solo il nostro consueto pungy-pungy, pilly-pilly, Mr. Moriarty. Proprio come tutte le altre volte pungy-pungy, pilly-pilly”. “Perché ho le mani legate al tavolo? Fatemi alzare!” “Non avete le mani legate. Siete soltanto un vecchio bruco rannicchiato nel bozzolo. Mica vorrete scivolare di nuovo sul ghiaccio, non è vero?” “C’era il ghiaccio! Mi avete fatto scivolare”. “Mr. Moriarty, è luglio. Non c’è il ghiaccio a luglio”. “Ma avete detto che c’era! Avete appena detto che sono scivolato sul ghiaccio!” Ho guardato l’infermiera che scuoteva la testa appuntita e mi dava un’occhiata condiscendente. “No, Mr. Moriarty, state ancora sentendo le voci”. Ha dato uno sguardo oltre la spalla alle cameriere. “Giusto, ragazze?” “Sente ancora le voci!” dissero in coro. In coro! Non lo fa nessuno! E loro sembravano uguali. Sono forse gemelle? Cameriere gemelle in casa mia. Non ricordo di avere cameriere. E perché avrei dovuto assumerne due uguali? “Slegatemi! Slegatemi subito!” ho gridato con tutte le forze ma le bende ghiacciate erano troppo forti. “La lascio gironzolare ampiamente in un batter d’occhi” disse l’infermiera lucida. “Prima, mi lasci solo prendere le pinze”. “No! Perché le pinze? Avete detto che mi avreste dato una pillola”. “Oh, Mr. Moriarty, siete proprio uno sciocco Sidney”. L’infermiera canticchiò ai robot: “Sente ancora le vociiiii!” “Sente ancora le vociiiii!” gorgheggiarono i robot. Ma loro erano cameriere! E adesso erano robot luccicanti. Fatti di cromo e ghiaccio! Cosa stava accadendo? “Dovete lasciarmi andare. Devo prendere l’autobus. Sì, un autobus. Devo prendere l’autobus per Garble Knob Creek, dove i pesci fischiettano la Cavalcata delle Valchirie”. “Ci siamo, quel lobo sta venendo fuori bello e scattante” ha detto l’infermiera traslucida. “Avrò finito in un batter d’occhi, Mr. Moriarty”. “La prova a sostegno del salto di dimensione spazio-temporale è euclidea”. I suoi occhi rossi erano rubini sfaccettati in contrasto con il suo scintillante ectoplasma. “Fatemi solo installare il chip che trasforma l’Augmentin. Mica vorrete restare senza, no?” “Devo essere sulla base lunare Hathor. Non mi potete lasciare in un acquario accanto al lavabo dei sogni. L’altro giorno ho vinto la lotteria in un recinto per maiali. Ho pensato a delle cose, una volta”. “Oh-droide! Guarda la tua nuova corteccia, MR.MoR-1-R-T! La Fondazione dei Cyborg sarà così orgogliosa di te!”
Storie di Steampunk – Dirigibili n. 3 – Sarah Hunter
19 luglio 2025
*** La serie iniza con "Dirigibili n.1: Libellula" *** “Una decisione ridicola” disse il capitano di fregata del dirigibile. Lanciò uno sguardo all’ammiraglio Robert Walker e sussurrò aspramente: “E pensare che l’ammiraglio Walker la aveva inclusa nella nostra formazione di difesa”. “Assurdo” disse un capitano di cacciatorpediniere dirigibile, “rischia di perdere conoscenza in un volo prolungato a elevata altitudine”. “Infatti” replicò il capitano di fregata, “è risaputo che gli organi femminili non possono sopportare una ridotta pressione dell’aria”. “Cosa succederebbe se durante la prossima battaglia aerea avesse un attacco di isteria?” disse un capitano dal tavolo accanto. “Potrebbe schiantare il Darner dritto nel mio ponte”. “Questi incontri di guerra erano piuttosto piacevoli” disse il capitano accanto a lui. Sospirò nel suo whiskey, “sì, la situazione di Londra è disastrosa, ma la stanza della guerra dovrebbe rimanere un affare da gentiluomini”. “Il Libero Concilio di Londra non vede il giusto e lo sbagliato di Sarah Hunter?” “Il posto di una donna è a casa!” “Perché lei si confonde con gli affari di guerra?” “Vorrei non vedere più Sarah Hunter che sfila come pilota”. “La stanza della guerra è stata stravolta e oso dire che non verrà recuperata”. “Io propongo di affrontare la situazione con l’ammiraglio...” La porta della stanza della guerra si chiuse sbattendo. Il capitano Sarah Hunter, in piedi a testa alta, con un gilet di pelle e pantaloni di lana, esaminava la stanza. Aveva i capelli scuri tirati indietro nella solita treccia che le arrivava alla vita. Le lunghe braccia penzoloni e le dita contratte. Con lenti passi felini attraversò il pavimento per mettersi accanto all’ammiraglio Robert Walker. Gli occhi verdi le brillavano di sdegno. Fece un secco saluto militare. “Ammiraglio Walker e miei compagni capitani, buongiorno”. L’enfasi su compagni era inconfondibile perfino per l’uomo più ottuso in quella stanza. Le tre dozzine di capitani si alzarono in piedi. Ci fu qualche brontolio ma gli uomini ricambiarono il saluto e si rimisero velocemente seduti. Il Capitano Samuel Tyler si sistemò sulla sedia con una smorfia e sospirò. Per buona parte di un’ora aveva ascoltato i capitani deridere Sarah. Appena uno di loro si zittiva, qualcun altro prendeva il suo posto. Erano stati fatti commenti di ogni tipo, dall’assurdo al privo di tatto. Ne contestavano le capacità, i principi morali, e perfino la fisicità mascolina. Semplicemente, i capitani non accettavano che una donna, soprattutto così giovane, potesse essere un fattore determinante nella difesa aerea contro Darkhouse & Sons. Tyler conosceva Sarah da quasi dieci anni. L’aveva incontrata quando lei aveva collaborato con suo padre, l’ingegnere militare vittoriano Treyton Hunter. Quando i due uomini apportavano miglioramenti alle pinne del rotore, la vivace bambina porgeva gli strumenti al brillante ingegnere. Avrebbe energicamente affermato che un giorno sarebbe diventata la più grande pilota che il mondo avesse mai visto. Tyler era abbastanza sicuro che avesse già raggiunto il proprio obiettivo a soli venti anni. La breve storia di Sarah Hunter pilota sembrava incantata. Aveva pilotato il primo ornitottero sperimentale quando aveva soltanto tredici anni. Tre anni più tardi aveva surclassato i piloti seniores pilotando l’ornitottero Raven nelle esibizioni aeree su Londra. Ora, a venti anni, era la sola persona in grado di pilotare il Darner, un dirigibile così sconcertante al punto che gli uomini che avevano cercato di pilotarlo avevano rinunciato ai loro sforzi. Avevano dichiarato che non era possibile governare il prototipo. Il bombardiere da combattimento Libellula aveva troppi comandi. Era troppo instabile quando volava alla massima potenza. Nel volo a punto fisso l’ornitottero minacciava di ribaltarsi. Mentre essi discutevano con Treyton Hunter sulla complessità dell’ornitottero, Sarah aveva acceso le turbine a vapore ed era balzata nella cabina di pilotaggio. Aveva svolazzato sul Tamigi e nel tuffarsi sul campo di prova aveva quasi reciso i loro cilindri. Il suo perfetto volo a punto fisso e il suo atterraggio morbido erano stati una beffa per i piloti. L’ammiraglio Robert Walker non aveva altra scelta che assegnare a lei la difesa aerea. Tyler vide la coppia malassortita bisbigliare brevemente. Un inquieto Walker annuì seccamente e pose le mani sul modellino in scala di Londra. “Signora e signori, discuteremo la nostra nuova strategia per la difesa aerea della città”. Walker girò una manovella e un dirigibile giocattolo pitturato con l’Union Jack discese. Azionò una seconda manovella e la flotta della Darkhouse & Sons cadde dal soffitto come uccelli rapaci. “Le nostre spie ci informano che la nuova unità operativa Dreadnought si unirà alla flotta da guerra Darkhouse & Sons. Si prevede che affronteremo almeno tre Dreadnoughts nel prossimo attacco su Londra”. Walker ruotò un piccolo volante che spostò i dirigibili penzolanti su Londra e li posizionò in formazione da difesa. “Dobbiamo bloccare il loro ingresso nello spazio aereo della città e permettere al Darner di volare attraverso la nostra formazione per bombardare questa nuova minaccia”. Un capitano di fregata si alzò con atteggiamento canzonatorio. “Ammiraglio Walker, permettetemi di porre un quesito sulle tattiche” i suoi occhi guizzarono da Walker all’impassibile Sarah. Walker annuì. “Permesso accordato”. “Come può il Darner far fuori più di un dreadnought solamente con una singola carica incendiaria?” Il capitano di fregata vide in giro per la stanza le teste che annuivano. “Non stiamo compromettendo la difesa standard per uno stratagemma rischioso con un prototipo appena testato, pilotato da ...” agitò le braccia, “pilotato dal gentil sesso?” La stanza ribolliva quando Walker li fulminò con lo sguardo. La barba fiera, la testa rasata a zero e i glaciali occhi grigi ristabilirono l’ordine senza alzare la voce. “Capitano, il Darner è stato modificato in modo da trasportare una seconda carica”. Walker guardò l’inespressiva Sarah che fece un breve cenno di assenso. L’ammiraglio fece girare una ruota e il minuscolo Darner appeso a un filo d’acciaio verso un grande dirigibile con il ponte piatto. “La nave da rifornimento galleggiante è stata dotata di una piattaforma di atterraggio a sbalzo. Il capitano Hunter ha eseguito una simulazione di prova per montare una terza e una quarta carica incendiaria”. Walker fece un cenno a Tyler. “Come abbiamo visto insieme al capitano Samuel Tyler, gli sforzi congiunti di un cacciatorpediniere e di un bombardiere da combattimento Libellula sono stati coronati da successo nell’abbattimento del superiore Crusher”. Ci fu qualche mormorio nella stanza, mentre il capitano di fregata borbottò un grazie e si mise a sedere con uno sguardo impietrito sul viso. Il capitano Tyler fece una smorfia per essere stato messo in evidenza. Benché fosse stato definito un eroe nelle strade e nei pubs di Londra, i suoi compagni capitani gli avevano offerto poco più di un freddo ringraziamento per la sua rischiosa missione nell’affrontare il Crusher. Sarah non aveva ricevuto alcun ringraziamento. Ma nessun grado di derisione avrebbe impedito a Tyler di collaborare con la giovane Sarah. Lei era un elemento fondamentale nella difesa della città. Ed era la figlia del suo amico. Il capitano Samuel Tyler rivolse lo sguardo all’alta e sottile Sarah accanto al cupo Walker. Sentiva affinità con lei e suo padre. I due uomini avevano perso entrambi le mogli durante il parto. Tyler aveva un figlio di ventiquattro anni, Charles, e una figlia di ventidue anni, Virginia. Treyton Hunter aveva soltanto Sarah. Erano due vedovi che temevano per i loro figli adulti con Londra in guerra. Sarah rischiava la vita nell’aria. Virginia si era messa in pericolo come spia e assassina. Charles era in costante pericolo, ammassato in una macchina da guerra sul fronte di battaglia a Londra nord. All’inizio della guerra, i due padri si erano confidati a vicenda. Avevano fatto le scelte giuste per i loro figli? Quale prezzo avrebbero pagato le loro famiglie per liberare Londra dallo stivale dell’oppressione? FINE
Più che Morto
17 luglio 2025
Sono morto. E’ quello che mi hanno detto quando mi hanno portato qui. Non è stato un viaggio lungo, ma è durato abbastanza da farmi pensare che avessero ragione. Non sento il battito del cuore, né le pulsazioni. Ho provato a respirare sul retro argentato del mio orologio quando mi è passato davanti ma non ho visto l’umidità aderire all’acciaio. Con mio gran sollievo, ho visto che proiettavo un’ombra. Potreste pensare che proiettare un’ombra è uno strano sollievo, ma un conto è essere morto, un altro è essere un vampiro. Mi sono chiesto se potessi essere uno zombie. Ho guardato l’uomo in piedi di fronte a me, ma non ho avuto fame. Anche questo è un piccolo premio di consolazione. Potete immaginare di mangiare il cervello a qualcuno? Nei film è bello, ma se ti trovi seduto a fissare l’uomo accanto a te – voglio dire, a fissarlo davvero – ti puoi immaginare mentre gli mangi il cervello? Che pensiero orribile! Potevo escludere di essere uno zombie o un vampiro. Era un buon inizio, ma non era abbastanza. La morte solleva una domanda molto importante: e adesso? Non posso essere morto per sempre, vero? Il mio pensiero è una contraddizione, un ossimoro, o una semplice sciocchezza? E’ difficile dire quali regole grammaticali si applichino nella morte. Si applicano tutte? Solo alcune? Quali? Come ho potuto credere di comprenderlo ora? Ho guardato l’uomo nella stanza ma non sono sicuro che mi veda davvero. Sono sicuro che vede qualcosa di me, ma ora per lui non sono altro che un corpo. In un certo senso non mi pare giusto. Se sono morto, allora devo essere qualcosa di più. Non nego che la maggior parte di me sia inerte, ma adesso c’è qualche altra parte di me che ha preso il via. Prima di essere morto avrei creduto che dopo la morte sarei stato di meno. E’ piuttosto piacevole avere improvvisamente realizzato che sono di più. Ma come faccio a comunicare che sono ‘di più’? Immaginavo che il passo più logico fosse chiamare l’uomo a gran voce e dire: “Adesso che sono morto sono qualcosa di più”, ma le labbra non si volevano muovere. Ho cercato di alzare un dito, ma non ho avuto fortuna. Strizzare l’occhio sarebbe dovuto essere piuttosto facile, ma le palpebre non rispondevano ai miei comandi. Intanto che l’uomo lasciava la mia visione periferica, sentivo crescere la frustrazione. Anche se ero di più, come potevo comunicarlo al mondo? “Salve!” “Oh, salve. Da dove sei venuto?” “Da laggiù”. “Da dove?” “Da laggiù.” “Oh, capisco. Aspetta, tu mi vedi! Quell’uomo mi vede, ma non mi vede davvero, se sai cosa voglio dire”. “Io so esattamente cosa vuoi dire”. “E’ un tale sollievo. Ma per favore, sii onesto. Riesci davvero a vedermi?” “Oh, sì, ti vedo davvero molto bene. Dopo tutto, sei di più”. “Sì, sì, sono di più. Sono felice che finalmente qualcuno lo riconosca! Non hai idea di come possa essere non sentirsi apprezzati”. “Resteresti sorpreso. Tutti noi ci siamo sentiti in quel modo almeno una volta. Non è facile essere di più”. “Noi? Ci sono altri di noi che sono di più?” “Ce ne sono molti altri”. “Li posso incontrare?” “Certo che puoi. Vieni con me. E’ ora che tu diventi più che morto per sempre”.
Fuoco Fatuo
15 luglio 2025
La fortuna appartiene ai giovani e ai pazzi, diceva mio padre. Io non sono né l’uno né l’altro, perciò non potevo far conto di attraversare la palude di corsa sperando che i fuochi fatui non mi catturassero. Dovevo stare attento a ogni passo che facevo, audace ma agile. Nella palude avrei dovuto adottare il passo di un gatto soriano, che suona tanto improbabile, considerato che ai gatti non piace bagnarsi. Ma era ciò che pensavo facendo delicatamente un passo dopo l’altro, con la testa che ruotava per intravedere un fuoco fatuo. Mio padre diceva che i fuochi fatui non avevano sempre occupato la palude. Penso a tutti i vecchi pericoli. Sembra che siano stati tutti lì dall’inizio dei tempi. Vecchie storie senza alcun inizio. Racconti vaghi e vischiosi come tentacoli di medusa. Ma non con i fuochi fatui. I fuochi fatui non erano sempre stati lì, diceva mio padre quando ero un ragazzo. Mi ha detto che si ricordava di avere attraversato la palude senza nient’altro che stivali di pelle cerata alti fino alla coscia, una lanterna e un bastone. Mi ha detto come anche suo padre diceva che i fuochi fatui non avevano cattive intenzioni. Eppure un giorno i fuochi fatui presero mio nonno nella palude. Accadde prima che nascessi. Sono cresciuto col terrore dei fuochi fatui, tremando dinanzi alle forme fievoli e indistinte che si libravano sulla palude. Non sembravano malvagie, con il loro languido muoversi come semi di pioppo alla brezza primaverile. Era quasi impossibile vedere i fuochi fatui di giorno ma la loro luminescenza confusa si scorgeva facilmente dopo il tramonto. Da allora in poi, tutti gli attraversamenti dovettero avvenire di notte. Mio padre diceva che in tanti erano contrari. Molti dicevano che l’attraversamento notturno violava la nostra antica religione. Ripresi i miei sensi. Era pericoloso sognare a occhi aperti durante un attraversamento. Probabilmente ero ormai a metà della palude. Non c’erano marcatori perché durante la notte la palude aveva inghiottito qualsiasi cosa ci avessimo picchettato. Mio padre diceva che era opera dei fuochi fatui ma io lo trovavo strano visto che non avevano forma. Niente mani per afferrare, nessun materiale per togliere picchetti nelle zone umide. Eppure in qualche modo tutti i segnali durante la notte sparivano. Era previsto di contare i passi, ma non funzionava mai quando dovevi schivare zolle di terra, radici intrecciate e, ovviamente, i fuochi fatui. I fuochi fatui erano lenti e insensibili al vento, sicché era facile schivarli. Ma il loro movimento tortuoso faceva sì che la traversata richiedesse un percorso diverso a ogni mio passaggio. L’unico modo per sapere dove mi trovassi nella palude era arrivare abbastanza vicino alla sponda dell’altro lato e usare le torce da nebbia come guida. Ero esausto per il peso del dono sacro legato alla schiena. Si era tentato di alleviare il peso con chiatte e zattere, ma avevano provocato la sparizione di troppi uomini. Erano possibili soltanto passi faticosi, lenti e cauti. Con un po’ di fortuna, era forse possibile attraversare la palude in poche ore. Ma la fortuna era solo per i giovani e per i pazzi. Non sono mai stato fortunato, perciò attraversare significava un viaggio di tutta la notte con il terrore di non farcela prima dell’alba. Non c’era periodo più pericoloso del sorgere del sole, quando i fuochi fatui diventavano completamente invisibili controluce. Ho visto un fuoco fatuo venire verso di me. Un turbinio scintillante, fluttuante e indefinito. Con la luna nuova il fuoco fatuo si vedeva meglio e mi dava tutto il tempo di cambiare percorso. Ma nello spostarmi di lato, fissavo la sua foschia. L’oggetto che danzava era di una bellezza infinita. Non vedevo come potesse essere pericoloso; era luce che scintillava e brillava, calda e dorata. Ero talmente vicino che potevo quasi toccare il fuoco fatuo. Potevo parlare con il fuoco fatuo. Mi ascoltava e lo sentivo parlare nella mia mente. Unisciti a me! Unisciti a me! Ha chiamato. Sono tuo nonno, il Fuoco fatuo! Non avere paura e attraversa con me! Mio caro nipote, bentornato a casa!
Storie di Steampunk – Allister Davies n. 3: Riflessioni
12 luglio 2025
*** La serie iniza con "Allister Davies n.1: Londra in Fiamme" *** Le settimane successive al suo rientro dal giugno 2050 erano state lunghe e indolenti. Il Professore Allister Davies era effettivamente andato a passeggio con il matematico Edgar Payne e la sua giovane moglie Agnes ad ammirare i nuovi edifici dell’epoca vittoriana. Fecero picnic nell’Hyde Park e dettero da mangiare alle anatre. Trascorsero le serate mangiando, giocando a scacchi e bevendo fin troppo cognac. Dopo cena Agnes avrebbe incoraggiato Davies dicendogli che non era troppo vecchio per sposarsi. Lui la avrebbe ringraziata profusamente ma avrebbe rifiutato qualsiasi incontro combinato con zitelle e vedove. Poi Payne e Davies si sarebbero ritirati nello studio per discutere di teoremi e problemi matematici. Era tutto incantevole. Eppure l’inventore era inquieto. L’unico luogo in cui si sentiva veramente a suo agio era il suo atelier. Era sia un laboratorio che una fortezza a guardia del suo cervello. Quando Davies era al lavoro, la sua mente era protetta dai pensieri intrusivi. Pensieri che venivano dal 14 giugno 2050. Quei pensieri erano del futuro o del presente? Tormentava se stesso con l’enigma. Nove viaggi sempre nella stessa data e ora del futuro. Quando era arrivato nel futuro, quello era il suo presente. Non osava scivolare nella filosofia vedica quando aveva in mano gli strumenti. Lo sguardo senza vista dell’automa sembrava osservare ogni sua attività. Davies fece un respiro profondo per schiarirsi le idee. Gli strumenti sferragliarono sul bancone, l’inventore aveva gli occhi persi e i capelli ritti. Davies pensò al suo viaggio più audace. Era stato il settimo. Aveva girovagato tra le case demolite alla periferia del nucleo centrale di Londra. Persone che barcollavano con gli occhi vuoti senza far caso a lui. Era rimasto fra le macerie di un angolo di strada e aveva osservato i cittadini che rovistavano fra i detriti. Davies non capiva cosa stessero cercando. Non c’era cibo né acqua. Gli strani fucili che tiravano fuori dai rottami erano piegati e bruciati, sembravano irrecuperabili. Nel tornare al Pellegrino del Tempo incrociò lo sguardo di un giovane. Costui si fermò e fissò Davies. Il giovane lo scrutò dal cilindro agli stivaletti. Si avvicinò a Davies e commentò il suo abbigliamento stravagante. Davies si era preparato un discorso proprio per un’eventualità del genere. Disse che era un attore di teatro che sperava di portare un momento di gioia in tempi disperati. L’uomo sembrava convinto e si complimentò con lui per l’accento arcaico. Davies si affrettò ad andarsene dichiarando che lo aspettavano per le prove. Quando Davies si avvicinò al Pellegrino del Tempo, c’erano due bimbi piccoli che curiosavano. Gli chiese di fare un passo indietro. Loro domandarono a Davies se avesse del cibo in avanzo. L’inventore si sentì distrutto a rispondere che non aveva niente. Svuotò le tasche per dimostrarlo. I bambini annuiorono e lo guardarono senza collera. Davies ricordava il senso di impotenza opprimente che gli aveva travolto le viscere. Il sentimento di disperazione per la situazione. Quando Davies schiacciò le leve e impostò le manopole essi rimasero sbalorditi. Corsero via urlando, con la macchina che si avviava emettendo vapore. Davies continuava a rimproverarsi. Non avrebbe dovuto restare così a lungo né vagare così lontano. Le dita dell’automa si aprirono e si chiusero abilmente. Era una ricompensa meritata per il suo lavoro tecnico. Nell’ultimo test aveva avvitato troppo gli ingranaggi. Ora la macchina senza pensiero era capace di svolgere compiti semplici, ripetitivi. Poteva restare accanto a Davies e porgergli gli strumenti più e più volte, in cadenza perfetta. Era esattamente quello di cui Davies non aveva bisogno. Ma ciò che voleva aveva paura a metterlo in pratica. In teoria aveva soltanto bisogno di installare un cristallo inciso che avrebbe funzionato come cervello dell’automa. Gli era stato regalato da uno scienziato nel corso di un viaggio nel 2040. Non aveva ancora trovato il coraggio di provarlo. Il soriano miagolò. Davies lo guardò nei suoi occhi verdi. Aveva trovato il gatto nello stesso punto dei suoi primi tre viaggi nel 2050. Fu al terzo viaggio che Davies tirò fuori un pezzo di pesce dal fazzoletto. I due diventarono subito amici. Quando Davies si mise sul pulpito, lo spelacchiato gatto arancione e bianco ci saltò su e miagolò. Strofinò il capo sull’avambraccio di Davies. Lui avrebbe potuto spaventarlo. Invece, prelevò il gatto azionando la leva del vapore e portò indietro con sé il micio sconcertato. Non era stato del tutto onesto con il suo amico Payne. Il soriano non sarebbe mai potuto andar perso nel Caleidoscopio da Viaggio perché Davies gli aveva assicurato che non sarebbe avvenuto. Aveva afferrato il gatto e bloccato i suoi graffi e sibili mentre gli arcobaleni ondeggiavano intorno a lui. Quando il Pellegrino del Tempo si materializzò nel 1870, si chiese quale versione di se stesso continuasse a riportare il gatto dal futuro. Il gatto che veniva dal futuro ma che adesso era nel presente. Che sarebbe accaduto se Davies fosse tornato un giorno prima per cercare il gatto? Si chiese se il 13 giugno 1870 il soriano esistesse ancora. Che sarebbe successo se lo avesse trovato e portato indietro con lui? I due gatti avrebbero saputo di essere il medesimo gatto, separato soltanto da un giorno? Gli faceva male la testa. Davies si dondolò avanti e indietro sulla poltrona di pelle. Il calice era rimasto intatto sul tavolino da fumo. La pipa spenta gli languiva in bocca. Il soriano si era girato e gli faceva il pane in grembo. Londra. Per Londra non aveva alcun piano. Nelle poche discussioni con Payne, erano giunti alla conclusione che non ci fossero soluzioni da offrire ai loro discendenti. Avevano deciso che non potevano evitare gli eventi. Davies era divorato dal senso di colpa. Pensava che si fossero arresi con troppa facilità. Non poteva nascondersi dietro alla sua invenzione e sostenere di non essere altro che un semplice spettatore. Aveva visto e non poteva far finta di nulla. Aveva assistito a troppe cose. Il Pellegrino del tempo era la sua passione e la sua maledizione. FINE
Lucido Come un Cappellaio
09 luglio 2025
Sollevai la testa d’istinto al tintinnio delle campanelle. La porta si aprì e incrociai lo sguardo di un gentiluomo dall'aspetto piuttosto severo. Anche se devo ammetterlo, ero abbastanza contento di vedere che non aveva un cappello. Era molto insolito considerando il suo abbigliamento signorile, ma molto conveniente per la mia attività. “Buongiorno a voi, mio bel signore!” dissi allegramente. “Abbiamo un meraviglioso tempo asciutto”. “Harump!” dette lui come risposta. “Sì, è un giorno, anche se non direi che è bello”. “Forse insieme possiamo farlo diventare un giorno bello, Mister...?” “Crobblehence” disse bruscamente. Devo ammettere che non avevo mai sentito quel nome a Londra. Forse era uno straniero. “Mr. Crobblehence? Ho sentito bene?” “Sì, cappellaio, il mio nome è questo”. Battè bruscamente la punta dell’ombrello sul pavimento di pietra. “Siete sordo o pazzo?” Dio mio, che tipo. Sentivo i suoi occhi freddi su di me mentre gli parlavo. “Non intendevo offendervi, Mr. Crobblehence. Mi ha soltanto colpito come nome insolito”. “Che intendete dire?” Comparve davanti al mio banco. Era molto strano. Sembrava che non camminasse, eppure aveva fatto dieci passi senza che me ne accorgessi. “Beh, non è comune”. Buttai uno sguardo ai suoi piedi prima di incontrare i suoi occhi freddi. “Non volevo dire niente”. “Però l’avete detto”. Crobblehence alzò il mento e la lampada a gas sul muro tremolò. “Avete respirato vapori di mercurio?” “Certo che no!” Che pensiero offensivo! “Il mio laboratorio ha delle finestre ampie che stanno sempre aperte quando faccio i cappelli”. Sembra che debba vendere il mio cilindro a un maleducato. “Maleducato?” Sbiancai. “Perdonate?” “Dicevo che il vostro discorso suona biascicato”. Il Mr. Crobblehence senza cappello arricciò il labbro mentre indicava la finestra. “Apritele bene la prossima volta che fate un cappello”. Guardai attentamente lo scortese Mr. Crobblehence. Aveva un abbigliamento piuttosto ricco. I suoi abiti erano finemente cuciti e la catena dell'orologio che scompariva nel suo cappotto sembrava essere d’oro massiccio. I miei affari non erano più quelli di una volta da quando il mio ex apprendista aveva aperto il suo negozio a non più di due isolati dal mio. Temevo di dover ingoiare l’orgoglio e di dovermi impegnare con lui al meglio delle mie capacità. “Mi ricorderò di aprire completamente le finestre”. “Vedete di farlo”, disse mentre si girava a guardare le rastrelliere dei cappelli. “Beh, cosa avete da mostrarmi? Se non siete cieco oltre che sordo e pazzo, potrete vedere che la mia testa ha bisogno di un riparo”. Non potei fare a meno di alzare le sopracciglia per la curiosa scelta delle parole, anche se tenni a freno la lingua. “Che ne dite di questo? È abbastanza alla moda e ha richiesto molte ore di duro lavoro”. “State cercando di farmi spendere di più, eh?” Il suo dito scattò e dovetti fermare il cappello che stava per cadere dalla panca. “Sembra la torre di Londra”. “Allora, questo?” Allungai la mano verso una mensola più alta. “È più elegante”. “Sembra un serpente strozzato”. “Allora forse questa bombetta?” “Ho visto becchini con abbigliamento migliore”. Mr. Crobblehence mi rivolse un sorriso malizioso. “Proprio ieri, in effetti”. Stavo per disperarmi, se non fossi riuscito a trovare un cappello adatto avrei perso una vendita. “Che ne dite di...” “Sì, lo so che siete disperato. Avete bisogno di vendere a me”. Come faceva a saperlo? Avevo parlato a voce alta? Peggio ancora, con tutta probabilità avrebbe comprato un cappello dal mio ex apprendista. “Se voi...” “Molto probabile, sì”. I suoi scintillanti occhi neri erano freddi. “Penso che farò visita al vostro apprendista”. “Come, come? Non può essere!” Sentii un tremore terrificante. “N-non potete aver sentito cosa ho detto! Non ho parlato”. “State tremando”. Mr. Crobblehence disapprovava e scuoteva la testa. “Voi siete matto come un cappellaio”. “No, non è vero!” Mr. Crobblehence si voltò. “Me ne vado”. “No, per favore! Ho altro da mostrarvi”. Mi avvicinai a lui ma immediatamente provai repulsione. Stavo tremando. Riuscivo a malapena a balbettare. “N-non a-andate ancora via”. “Ne siete sicuro?” La lampada a gas si affievolì mentre Crobblehence parlava. “Siete veramente sicuro di volere che resti?” “S-sì, ho molti altri cappelli da mostrarvi”. “Non ve lo consiglio”, aveva un sorriso squallido e compiaciuto. “Penso che dovrei andarmene per il bene di entrambi”. “No, non ve ne andate!” “Non guardate il muro”. “Non ho guardato il muro!” “Non guardate la mia ombra sul muro!” La bocca gli si allargava orribilmente sulla carne grigia, mentre avvertivo una forte pressione al collo e un torpore fino alle dita. Le mie viscere si trasformavano in ghiaccio, quando vidi una lunga ombra scura sul muro sgusciare fuori dalla testa dell’uomo senza cappello e scivolare verso di me. Le mani eteree dell’ombra mi afferrarono la testa e i piedi. Sentii il nulla tirare fino a separare le mie vertebre. Mentre esalavo l’ultimo respiro, capii perché la testa di Mr. Crobblehence aveva bisogno di un riparo. *** Demone d’Ombra #2
Il Giullare
08 luglio 2025
“Posso chiedervi come vi chiamate?” “Giullare”. “Sì, lo so che è la vostra, beh, vocazione. Intendo il vostro nome di battesimo”. “Giullare”. “Davvero? Non avete altri modi per essere chiamato? Magari vi chiamate Geddrick, o Samuel o...” “Giullare! Cos’è che non riuscite a capire? Ho detto che il mio nome è Giullare!” Ho guardato il torace del giullare che si alzava e abbassava a fatica. Tutto il suo essere guardava in cagnesco. Non mi aspettavo che le mie domande lo avrebbero fatto arrabbiare così tanto. Il mio unico scopo era dimostrare rispetto per la sua persona e per la sua posizione. “Certo” ho detto. “Diamo un’occhiata alla vostra sistemazione nel castello”. “Ce l’ho una sistemazione”. “Lo so, ma è sopra le scuderie. Lord Steward mi ha informato che...” “Non lascerò la mia stanza”. Il giullare fremeva di rabbia. O meglio, Giullare fremeva di rabbia. “No, certo che no”. La mia fronte si è fatta calda. “Bene, allora lasciate che mi occupi della vostra comodità considerando...” “Sono a mio agio”. “Sì, ma il letto ha bisogno di essere spiumato in modo da poterlo...” “Mi piacciono le piume che ha”. Ho sentito che stavo sudando. Mi aspettavo un compito impegnativo, ma da mente vuota. Il giullare aveva uno sguardo brutale che mi bruciava dentro. Ogni mia frase che lui interrompeva sembrava essere il risultato di un pensiero istantaneo. Mi avevano parlato delle sue strane capacità, ma non avevo sospettato che potesse leggere nel pensiero. Ovviamente, mi comportavo da sciocco, lui era solo arguto. “Sono più di questo” ha sibilato il giullare. “Cosa? Scusatemi messere, eh, Giullare”. “Mi avete sentito, Mastro Reeve. Sono ben più che astuto. Molto di più”. Ho sentito che stavo arrossendo. Aveva udito i miei pensieri? Non poteva essere un sensitivo; quella era roba da leggenda. Magari aveva solo indovinato studiando il mio viso. Ci voleva un bravo fisionomista a corte, per ricevere gli ambasciatori stranieri. E io avevo pensato che fosse arguto, non ‘astuto’. “Sono tutt’e due! Arguto e astuto!” “Mamma mia, che cosa? Non, non capisco. Non è possibile che mi leggiate...” “Non guardate il muro”. “Non lo sto facendo! Per favore, Messer Giullare...” “Giullare! Mi chiamo Giullare! Perché non riuscite a farvelo entrare in quella zucca vuota!” “Scusatemi, Giullare, se solo potessimo essere civili e...” “Non guardate la mia ombra sul muro!” Ho sentito gli occhi contrarsi verso sinistra. Ho sentito il collo scricchiolare e gemere. Le spalle si sono strette mentre ho sentito il corpo contorcersi. Non volevo distogliere lo sguardo, ma volevo tanto vedere la sua ombra! “Non guardate la mia ombra sul muro!” La testa mi è scattata all'improvviso e le vertebre si sono spinte contro gli occhi. La lingua si è arrotolata mentre il corpo si è contorto. “Vi avevo detto di non guardare”. *** Demone d’Ombra #1 ***
Storie di Steampunk – Dirigibili n. 2 – Speziale
05 luglio 2025
*** La serie iniza con "Dirigibili n.1: Libellula" *** Il lieve ticchettio delle tazze cinesi si mischiava a risate sommesse. Tovaglie di pizzo bianco cadevano su vestiti e su pantaloni. Vassoi di dolci e focaccine da tè andavano e venivano sulle spalle di camerieri impassibili. Accanto a una lampada a gas, una giovane donna lasciò un’ombra ultraterrena sulla carta da parati floreale e sottile. Indossava un cappotto nero sopra una polacca di velluto verde scuro. I guanti bianchi erano intonati col cappello gessato. Quando un uomo grassoccio dalle lunghe basette si alzò per salutarla, sorrise e fece un profondo inchino. “E’ un piacere, signora” disse lui lisciandosi la giacca spiegazzata e facendole un breve inchino, “devo ammettere, mi sono molto sorpreso quando ho letto nel telegramma che vostro marito avrebbe mandato la sua cara moglie al nostro incontro”. “Oh, Harold è talmente sbadato” rise lei nella sua mano, “ha programmato due incontri per questo pomeriggio. Se i nostri domestici non gli avvitassero la testa ogni mattina, temo che prenderebbe l’auto a vapore per Darkhouse & Sons senza quella." L’uomo ridacchiò e le spostò la sedia. “Sì, il nostro Harold ha troppe cose in mente. E’ un peccato che non possa discutere con voi i dettagli del nostro incontro”. Allargò la bocca in un sorriso felino. “Non sopporterei di mettere a dura prova le vostre fini sensibilità”. Lei ridacchiò e agitò la mano. “Conoscete fin troppo bene le donne, mio buon signore. Coi nostri cervelli deboli, è probabile che con troppi particolari andremmo in crisi”. Lui rise e aspirò il suo sigaro. “Mia moglie non la disturbo nemmeno, con queste cose”. Picchiettò sul tavolino. “Avete portato il registro?” “Oh sì, eccolo”. Urtò con il braccio la teiera di porcellana e la mandò in frantumi sul pavimento. Dalla sala da té arrivò un sussulto e la donna si torse le mani. “Bontà divina, che disastro che sono! Per fortuna il vostro tè è ancora nella tazza”. Sorrise e abbassò gli occhi. “Fareste meglio a finire di berlo prima che io provochi un’altra tragedia greca!” “Non vi preoccupate” l’uomo scolò la sua tazza e schioccò le labbra, “ne farò portare subito un’altra”. Alzò il braccio. “Ragazzo! Teiera! E fai presto!” “Vi ringrazio, signore”. Piegò le mani in grembo e si appoggiò allo schienale. Un giovane cameriere le riempì la razza di tè nero bollente. Lei sorrise e si sistemò il cappello. “Presumo che abbiate i documenti chiesti da Harold?” “Certamente” dette una pacca alla borsa appesa alla sedia, “ma perché tanta fretta? Godiamoci qualche momento di compagnia”. Mosse gli occhi su e giù per la sua figura. “Potremmo prendere un’altra focaccina e poi magari ritirarci nella mia sala da tè privata”. “Oddio” sbattè la mano febbrilmente, “vorrei aver portato il mio ventaglio”. “Ve ne procurerò uno, signora”. Alzò la mano. “Ragazzo! Porta un ventaglio per la mia gentile ospite”. Due camerieri scambiarono qualche parola, uno si diresse verso il retro della sala da tè e scomparve in una porticina. La donna sorrise, prese una focaccina e ci dette un morso con delicatezza. L’uomo la fissava e si leccava le labbra. La fronte pronunciata gli luccicava di sudore. Le guance minacciavano di inzupparsi nel colletto. Era un uomo abituato a una vita agiata e senza pensieri. Uno che non provava vergogna a prosperare sulle spalle dei lavoratori. Era palese in ogni suo gesto. Gli occhi della donna guizzarono verso l’ingresso e lei si premette i gomiti ai fianchi. Abbassò gli occhi e parlò sommessamente: “Se mi scusate un momento, signor mio. Devo recarmi alla toilette per signore. Questioni femminili”. “Ma certo, signora”. Tossì e si tirò il colletto. “Fa molto caldo nella sala da tè”. Appena fu in piedi, gli sussurrò da sopra le spalle: “Forse dovreste cercarvi una vettura”. Lui si strinse lo stomaco e gemette. “Sì. Sì, dovrei. Ragazzo! Chiama la mia carrozza”. La donna si fece strada fra i tavolini verso il bagno delle signore. Aprì la porta, sgusciò all’interno e tirò il chiavistello. Si tolse il cappello e la parrucca scura rivelando al di sotto capelli biondo fragola. Appoggiò il travestimento sul bancone di marmo e svelò le sue lunghe ciocche. Tirò fuori degli spilli dalla manica e si sistemò abilmente i capelli all’indietro. Frugò nella borsa e tirò fuori un soprabito giallo con un motivo floreale. Si tolse quello nero e si infilò alla svelta il travestimento gioioso. Indossò un cappello giallo coordinato e se lo sistemò di traverso. Si dette una guardata finale allo specchio. A ricambiare lo sguardo era Virginia Tyler, figlia del Capitano Samuel Tyler. Stipò il travestimento nella borsa e sbloccò la porta del bagno. Mentre camminava nella sala da tè, vide il suo presunto marito che gesticolava sopra l’uomo disgustoso accasciato sul tavolino. I camerieri stavano gridando a proposito di una donna scura di capelli, con un vestito verde e un cappotto nero, con la quale lui aveva condiviso il tè. Ovviamente, Virginia aveva condiviso molto più di un semplice tè. Prima che il cameriere lo servisse, aveva aggiunto qualcosa nella teiera. Un vero peccato che si fosse accidentalmente fracassata sul pavimento prima che lei potesse bere a sua volta. Da esperta speziale, Virginia sapeva quale dose potrebbe guarire e quale potrebbe uccidere. L’esecuzione dell’uomo non era stata il suo principale obiettivo. Il London Free Council sospettava che le carte da lui trasportate contenessero una lista di talpe e un’infiltrazione pianificata del loro esercito. La repentina comparsa di Harold Webster, un giovane contabile della Darkhouse & Sons, le aveva impedito di recuperare i documenti. Era delusa per l’opportunità perduta, ma la guerra per la libertà era piena di battute d’arresto. Virginia voltò la testa e si diresse intenzionalmente all’ingresso della sala da tè. Esitò nel sentire l’ultimo sussulto dell’uomo. Perlomeno avrebbe trovato conforto nel fatto che vi era un senior trader in meno alla Darkhouse & Son. FINE Grazie a Fabio e a Sara per la valigetta da Farmacista con le sue fiale ingegnose.
Cliché del distributore d’acqua
04 luglio 2025
Oh hei, non mi ero neppure accorta che fossi qui. Già, sono arrivato dal retro. Non ho trovato parcheggio davanti. Non hai parcheggiato al supermercato, vero? No, lo so che dopo le dieci chiudono. Esitò. Allora, Danny non c’è? No. Disse lei. Guardò Mark. Grosso e muscoloso, con occhi dolci e denti dritti. Dunque, pensi ancora di licenziarti? Già. Voglio dire, a che serve restare? Non avrò la promozione. Lei avvolse le dita intorno alla sua pinta e la strinse. Perché lui non ci andava a parlare? Mark era tutto spalle e muscoli ma non avrebbe mai avuto il coraggio di parlar chiaro. Hai avuto un responso ufficiale? Ancora no. Allora come lo sai? Perché lo so. So che non avrò la promozione. Mark, non è come se ti avessero mandato una mail o qualcosa di simile. Non ho visto post sulla bacheca elettronica. Lo so e basta. Diventò scuro come una TV e si stravaccò. Lei osservò la sua grossezza. Una mongolfiera. Vide i suoi occhi che si spostavano da lei allo sgabello del bar. Lei non lo aveva invitato a sedersi. Ma perché lui non aveva preso iniziative? Ti vuoi sedere? Danny non viene? Forse più tardi. Non ha ancora risposto al mio messaggio. Si chiese se Mark vedesse che le sue orecchie viravano al rosso. Danny aveva già risposto. Non sarebbe venuto. Fico, sì. Cioè, fico che ci siamo fatti una pinta. Sì, lo so cosa intendi. Lei alzò le spalle. Sai che ho perso il cellulare? Perché mai lo aveva detto? Oh, davvero? Allora come hai fatto a messaggiarti con Danny? Non volevo dire per sempre. Volevo dire. Non lo so. Si sentì una stupida. E le sue orecchie adesso erano rosse. Bruciavano come eruzioni solari. Non volevo dire che sei una bugiarda. Non lo hai fatto. Ora lei si stava arrabbiando. Lo so. Ma il modo in cui l’ho detto e il tuo sguardo dopo. Che sguardo? Ora si era arrabbiata. E si era sentita stupida. Aveva perso davvero il telefono. Solo per poche ore ma ci era diventata matta. Era sempre stato nella borsa con la suoneria silenziata. In un taschino che non usava mai. Scusami. Scrollò le sue spalle da orso. Non dire scusami. Non c’è nulla di cui scusarsi. Lo so. Solo... Lui dette un’altra grossa scrollata alle spalle, come due montagne che si sollevano in un evento geologico. Niente. Non è niente. Cosa niente? Niente. Non lo so. Cosa c’è con Danny? Lei alzò gli occhi al cielo. Mark, dimenticati di lui e basta. Se arriva adesso, cosa pensi che dirà? Mark, per favore. Aveva nascosto la sua irritazione e ora le stava tornando fuori subdolamente. Sto solo dicendo. Voglio dire, mi hai chiesto di sedermi. Beh, stavi ancora in piedi. Era una cosa stupida da dire, ma non poteva ritirarla. Quindi non volevi essere cattiva? Non è ciò che intendevo. Lo sai perché non mi sono licenziato. Le orecchie le bruciavano. Mark, per favore. Non è che tu e Danny siate sposati. Non ne voglio parlare. Sì, sì. Scusami. Scusa se ti ho disturbata. No, Mark, non fare così. Mark si alzò. Ci vediamo al distributore dell’acqua. Si voltò e sparì a destra del bar. Al distributore dell’acqua. Un tale cliché. Un così grande e grosso cliché.
Il Tempo è l'Anima
03 luglio 2025
Sì! Sì! E’ un successo!” l’artista alzò i suoi attrezzi in segno di trionfo. “Un gran successo, ti dico!” “Come fai a sapere che è un successo?” il rugoso scienziato scrutò attentamente la creazione. “Cos’altro potrebbe essere?” “Un fiasco”. L’artista guardò il collega a bocca aperta e arricciò il labbro, sdegnato. Questo era tutto ciò che puoi ottenere da uno scienziato, pensò. Bianco o nero. Uno o zero. Sinistra o destra. Gli scienziati non riuscivano mai a capire gli artistici spazi intermedi in cui vive il resto del mondo. No, facevano tutti i loro calcoli e quando avevano finito si aspettavano che uno più uno facesse tutte le volte due. E poi due più due doveva fare quattro. Ma il mondo non funzionava solo così. Ancora una volta, toccava a lui spiegarlo. “Non lo vedi?” Mise gli attrezzi nel grembiule e tirò la manica dello scienziato. “Inclina la testa e guardalo”. Lo scienziato aggrottò la fronte. “Sembra uguale”. L’artista sbuffò. “Non ci provi nemmeno! Vieni qui. No, qui”. Dette uno strattone al braccio dello scienziato e lo guidò fino a un segno sul pavimento. “Esatto. Mettiti qui e inclina la testa ora”. “La mia testa è inclinata”. “No, devi inclinarla di più, non vedi? In questo modo”. L’artista inclinò la testa all’estremo e gesticolò allo scienziato. “Lo vedi come faccio io? Fai lo stesso. Sì, esatto. Ora cosa vedi?” Lo scienziato si massaggiò il collo. “Vedo la stessa cosa. Un fiasco”. L’artista infilò la mano nel grembiule, afferrò gli attrezzi e li gettò sulle piastrelle imprecando. “Non ci provi nemmeno a vedere cosa vedo io!” “Questo perché io devo vedere cosa c’è realmente”. Lo scienziato posò una mano sull’opera d’arte. “Deve reggere alla prova del tempo. E questa non lo farà”. L’artista afferrò lo scienziato per le spalle e lo scosse con forza. “Come puoi dire questo? Non capisci neppure che cosa è il tempo!” “Certo che lo capisco”. Lo scienziato lanciò un’occhiata compiaciuta all’artista. “Il tempo è un periodo misurabile in cui si verifica un oggetto oppure un’azione”. “Bah! Insensato!” L’artista agitò le braccia. “Il tempo non è niente del genere! Tu non hai un’anima! Per questo non riesci a capire il tempo!” “L’anima non esiste”. “Ora sembri stupido. Completamente ridicolo! Quando ho detto che non hai un’anima stavo solo scherzando. Ovviamente hai un’anima!” L’artista camminava avanti e indietro e sbraitava. “Come potrei aver creato questo se non avessi un’anima? Come avresti potuto criticare ingiustamente questo capolavoro se tu stesso fossi solo un ingranaggio di una macchina?” “E’ tutto ciò che siamo”. Lo scienziato chinò il capo alle invisibili leggi universali che li trainavano. “Siamo soltanto rotelle e ingranaggi”. “No, idiota senza cuore! Siamo molto più di quello!” L’artista si coprì il viso con le mani callose e sussurrò: “come posso farti capire?” L’artista camminò avanti e indietro agitando le braccia sopra la testa. Si fermò e si masticò un’unghia. Poi si morse il pollice. Poi trasalì dal dolore e sfilò avanti e indietro. L’artista pensò che tutto fosse così inutile. Gli scienziati erano semplicemente troppo ottusi per capire l’anima, o il tempo, per non parlare di cogliere il suo capolavoro. L’artista si sentì pressato sotto un blocco di granito con una scintilla che gli scuoteva la mente. Tutto a un tratto si fermò e alzò il dito indice. “Ci sono!” trionfò l’artista. “So come farti capire!” “Come?” L’artista ghignò selvaggiamente mettendo la mano sul capolavoro immateriale e urlò con intensità scarlatta.
Gelido
30 giugno 2025
L’ho presa in braccio e mi sono messo a correre. Non pensavo che le mie gambe avessero la forza di trasportare così velocemente il mio corpo su per le scale, ma lo fecero. Sono corso oltre i cristalli di ghiaccio aggrappati alla ringhiera, facendo due scalini alla volta. I miei polmoni funzionavano come il mantice di una fornace e le mie gambe pompavano come i pistoni di un treno, spingendomi in alto. Sempre più lontano e più in alto. Bramavo il calore, un cuore ardente di pino resinoso o una roccia umida incandescente che odora di antracite. Ma tutto ciò che sentivo nel salire era il freddo che aumentava, come una scivolosa lastra di vetro che minacciava di gettarmi giù nell’abisso. Alla curva del pianerottolo sono scivolato e ho quasi perso l’equilibrio con il mio carico prezioso. Benché fossi instabile, ho cercato di non toccare la ringhiera. Ho voltato la testa e ho sentito l’aria che veniva dalla tromba delle scale mordermi in profondità nella carne. Quando l’ho sentita piagnucolare, il mio cuore ha perso un colpo. Mi ha affondato la testa nel collo, sperando di ripararsi dal gelo paralizzante. Ho strinto i denti e mi sono spinto verso l’alto, i miei tacchetti raschiavano le scale e le trafiggevano. Non mi ero accorto che la momentanea perdita di equilibrio mi aveva fiaccato le forze. Le mie gambe rallentavano e sentivo che le caviglie si irrigidivano. Ero ancora troppo lontano dalla cima. Ho fatto altri pochi passi e sono scivolato, ringrazio che quando ho sbandato e mi sono schiantato ero arrivato al pianerottolo. I chiodi nella giacca mi tenevano e mi impedivano di scivolare sulla perfida ringhiera. Il pianerottolo era ampio ma ricoperto da un sottile strato di ghiaccio. Di nuovo, ho controllato il respiro e le ho parlato dolcemente all’orecchio per smorzare i suoi lamenti. Non sapevo come avrei fatto a restare in piedi con la piccola nelle braccia. Se fossi scivolato di nuovo e avessi toccato la ringhiera sarebbe stata la fine della nostra salita. L’ho calmata con poche strofe sussurrate di una intramontabile ninnananna. Il mio canto sommesso si è trasformato in un grugnito quando ho premuto col piede destro sul pavimento per salire. Mi sono preso un momento per respirare e provare a fare un passo col piede sinistro. Ferito, ho imprecato. Senza dubbio il mio piede sinistro aveva subito una distorsione della caviglia o qualche osso rotto. Il freddo feroce e crudo rendeva impossibile capirlo. Non sentivo neppure il dolore, sapevo soltanto che ero ferito dalla risposta spugnosa dei miei passi barcollanti. Ho camminato, arrancando, un passo fermo seguito da uno lento e incerto. I passi lenti erano estremamente pericolosi. Se non avessi avuto il sangue che pulsava forte, sarei stato rapidamente sopraffatto dal freddo. La corsa faticosa mi aveva rischiarato la mente con un solo obiettivo: arrivare in cima. Il passo da lumaca mi aveva dato il tempo indesiderato per guardare in fondo a ogni corridoio buio che avevo oltrepassato. Anziché focalizzarmi sulla corsa verso la cima, ho analizzato ogni porta chiusa. I cristalli di ghiaccio giocano brutti scherzi alla mente. Scherzi orribili. Non avrei mai potuto essere sicuro se ciò che vedevo fosse un miraggio glaciale fin quando non ci fossi stato quasi sopra. Per questo motivo non mi sono fermato quando ho visto la sagoma con il coltello stagliarsi solo a pochi passi di distanza. Appena dietro di lei, una dozzina di altre; non mi scuserò per l’errore, semplicemente così è la vita. “Abbiamo tanta, tanta fame” hanno detto.
Storie di Steampunk – Allister Davies n. 2: Dilemma
28 giugno 2025
*** La serie iniza con "Allister Davies n.1: Londra in Fiamme" *** L’aria lampeggiò di luce blu. Mentre un’enorme nuvola di vapore riempiva il laboratorio, si udì una risatina cacofonica. Una folata d’aria spinse le pagine scarabocchiate sulla scrivania e le mandò a fare la ruota sul pavimento. Si sentì un rumore di taglio, come se all’improvviso il suono nella stanza fosse stato reciso da forbici immaginarie. Il vapore si dissolse per svelare il Pellegrino del Tempo nel punto esatto in cui si trovava prima del viaggio. Il Professore Allister Davies spalancò la porta della gabbia di Faraday. Il gatto bianco e arancione gli saltò dalle braccia e atterrò silenziosamente. Si avvicinò alla sua ciotola d’acqua. Per niente turbato da Londra in fiamme, il soriano ne leccò a volontà. “Buon Dio, Davies” borbottò il Professore Edgar Payne. Cadde dalla pedana e finì sul pavimento in pietra. Payne aveva borbottato per tutta la loro capatina nel giugno 2050. Aveva smesso soltanto durante il viaggio di ritorno quando il Caleidoscopio da Viaggio gli aveva reso impossibile parlare. Riprese il suo doveroso borbottio. “Non può essere. Semplicemente, questo non può essere”. Davies rimbombò sulle assi di legno, giù per le scale e attraverso l’atelier fino a una teca di vetro. Spalancò lo sportello e allungò la mano verso la sua bottiglia più pregiata. Versò due generosi quantitativi di cognac nei bicchieri da brandy. Andò verso la soffice poltrona. Payne si lasciò cadere e sospirò. Davies gli mise in mano un calice. “Payne, alla nostra salute”. Payne sussultò. “Alla nostra salute? Come puoi fare un simile brindisi dopo quello che abbiamo visto?” “Perché è nostro dovere tenerci in forma” disse Davies. “Sia in mente che in spirito. Dobbiamo trovare un modo per scongiurare questa catastrofe”. “Come?” La mano di Payne tremò nel portare il bicchiere alle labbra. Deglutì e si asciugò i baffi. “Cosa possiamo fare per evitare un disastro che avverrà tra centoottant’anni?” Era la domanda sulla quale Davies aveva riflettuto per settimane e non aveva trovato risposta. Era troppo perché la sua mente lo potesse comprendere. La distruzione della sua amata Londra. Il sentimento di disperazione che gli afferrava il petto. La sua mancata conoscenza degli eventi che avrebbero potuto portare alla devastazione. Sbatté la mano sul tavolo da fumo. “Possiamo viaggiare alcuni anni prima degli eventi e scoprire cosa avvenne!” “Sei pazzo?” Payne sobbalzò sulla sedia. “Che succederebbe se apparissimo proprio in mezzo ai nostri nemici?” “Posso impostare il timer sull’orologio” disse Davies. “Posso impostarlo per ritornare pochi secondi dopo il nostro arrivo. Ce ne saremo andati prima ancora che possano agire. E’ un rischio che vale la pena correre per la nostra cara Londra." “Con una visita breve non potremmo apprendere nulla”, Payne scosse la testa. “E potremmo essere fatti a pezzi. Dio solo sa che armi avranno nel 2050. Che succede se hanno perfezionato l’automa?” riprese a guardare la strana figura metallica che stava nell’angolo come un’armatura abbandonata. “Dici che stai per dar vita al tuo. Lo potresti mandare al posto nostro”. “A quale scopo? L’automa è una macchina incapace di pensare”. Davies si portò una mano alla testa. Riusciva a sentire il cervello gonfiarsi come un pesce palla. Avrebbe dovuto pensare a fermare la distruzione di Londra ma la sua mente vagava come faceva spesso. Prima che uno scienziato e inventore, era un sognatore a occhi aperti e un pensatore. Pensava al dilemma del Tempo. Il futuro e il passato non esistevano se non potevano essere visitati. Quando un uomo entra in un altro tempo, lui è sempre nel presente. Era una discussione che aveva fatto spesso con Payne. Il suo collega matematico lo avrebbe deriso e avrebbe detto che avevano entrambi visitato il passato e il futuro molte volte. Davies insisteva che erano sempre nel presente. Il presente era infinito. Il presente era là prima e dopo che tutto accadesse. Ogni istante era sempre il presente. Gli faceva friggere il cervello. “Davies? Allister! Mio Dio, amico, siediti e bevi il tuo drink!” Payne premette le dita di Davies attorno al suo calice poco prima che gli cadesse sul pavimento. “Sei pallido come un fantasma. Insisto perché ti sieda”. Davies scosse la testa. A cosa stava pensando? Si sentì perso. Sopraffatto dalla sua incapacità di trovare una soluzione per Londra. Londra la sua casa. Il luogo dei suoi studi, discussioni e invenzioni. Permise a Payne di metterlo a sedere in poltrona. Davies tirò un sospiro profondo. “Non è niente, Edgar. Solo una momentanea perdita di coraggio”. Payne posò un pollice sotto l’occhio di Davies e tirò giù. “Dovrei chiamare il chirurgo”. “Bah!” Davies allontanò la mano di Payne, “Non avrò più niente a che fare con quel ciarlatano!” “Nel suo campo è un luminare!” Payne sbuffò e si sedette di fronte a Davies. Lui vide il suo calice vuoto e si alzò. Passi incerti lo condussero alla vetrina. Tornò alla poltrona con la bottiglia. Payne riempì entrambi i calici fino all’orlo. “Davies, mio buon uomo, fai attenzione. Tutti questi viaggi nel tempo ti manderanno il cervello in pappa. Quand’è stata l’ultima volta che hai dormito?” Il soriano saltò in grembo a Davies. Lui per un attimo non seppe cosa fare. Il gatto dal futuro che era con lui nel presente. La sua mente si stava per fondere quando il gatto bianco e arancione miagolò e strofinò la testa contro il suo palmo. Davies cominciò lentamente a grattarlo dietro gli orecchi. Forse poteva trovare un attimo di pace. “Edgar, penso di avere solo bisogno di riposare”. Payne annuì. “Sì. Al disastro mancano ancora centoottanta anni”. Bevve il suo cognac in sorsi lenti. Dette uno sguardo alla finestra sudicia. “Si sta facendo tardi. Agnes mi starà aspettando”. “Portale i miei omaggi” guardò Payne con un debole sorriso. “Passa a trovarmi domani”. “Lo farò” Payne stese la mano e Davies la strinse con forza. “Riposa, mio vecchio amico. Domani ti trascinerò al parco, se necessario”. Il leggero clic della porta echeggiò per l’enorme laboratorio. Davies si accasciò nell’imbottitura spessa e posò delicatamente il calice mezzo vuoto sul tavolo da cocktail. Conosceva i suoi limiti e non era un ubriacone. La testa gli girava già. Girava per il bere e per la preoccupazione. Temeva che avrebbe avuto incubi alimentati dal cognac. Il soriano si mosse, sbadigliò e gli si addormentò prontamente in grembo. Il gigantesco Pellegrino del Tempo sembrava che lo fissasse. Vegliando su di lui. Talvolta Davies si chiedeva se fosse cosciente. Benché avesse impostato ogni quadrante con tutta l’accuratezza possibile, era inspiegabile come il Pellegrino del tempo non fosse mai atterrato una volta su una creatura vivente. Non si era mai trovato all’interno di un edificio o sul fondo di un fiume. Chissà perché il Pellegrino del Tempo arrivava sempre a margine di un’avventura. Come se sapesse in che modo metterlo in salvo. In salvo per quanto possibile. Davies sospettava che qualcosa lo guidasse attraverso il Caleidoscopio del Tempo. Non osava dirlo a Payne o rischiava di essere internato a Bedlam. Eppure, fin dal suo primo viaggio nel tempo, era convinto che una forza superiore vegliasse su di lui. FINE
Sto Parlando a Te
25 giugno 2025
Tu, caro lettore, stai leggendo la mia vita. Dunque, io ti parlerò, solo a te e soprattutto a te. Tu chiedi perché “soprattutto”? Caro lettore, potrei parlare solo a me stesso, come ho fatto già tante volte. Ma oggi parlerò a te. A te, l’uomo seduto sulla panchina verde al parco con un cane ai suoi piedi. A te, la donna raggomitolata nel letto, le luci abbassate e una fragola ricoperta di cioccolato stretta colpevolmente fra le dita. Parlo a te, l’adolescente che viaggia in metropolitana con un auricolare che casca solo perché non si adatta al suo orecchio. Parlo a te, la ragazza che sta da sola nel cortile della scuola perché pensa di non avere amici. Che c’è di così speciale nella mia vita di cui ti possa parlare? Beh, non sono più tra di voi. Ah, dici tu, sei morto. No, ti rispondo, non sono morto. In effetti, non sono mai stato più vivo di così. Ma come, chiedi tu, se non hai un corpo? E cosa ha a che fare un corpo con la vita? Rispondo io. Qui ti fermi e rifletti. Qui ti domandi se l’uomo che è vivo ma anche morto possa avere ragione. Ti chiedi se per essere vivo hai bisogno di un corpo. Ti chiedi se per essere morto hai bisogno di un corpo. Arrivi alla conclusione che ne hai bisogno in entrambe le condizioni. Adesso mi vedi scuotere la testa che non ho e stringere labbra invisibili. Vedi, ti sbagli. So cosa ti stai dicendo. Che fantasma presuntuoso! Come osa questo presuntuoso fantasma dirmi che sulla vita e sulla morte ne sa di più solo perché è trapassato? Ah, ti dico, ma io non sono morto, vero? Eccomi qua, a dirti queste parole silenziose e tu sei lì che le leggi una a una. Riga per riga. Paragrafo per paragrafo. Divorando tutto ciò che ho da dire. Mi stai mandando in confusione! Urli. Come, chiedo. Dici cose che non hanno niente a che fare con la vita e la morte, corpo o non corpo. E’ vero. Forse scherzo ma, ti assicuro, non rido di te. Perché io, caro lettore, sto solo dicendo ciò che è vero dall’abisso scuro e lattiginoso che è l’aldilà. Sei ancora scettico. Un abisso scuro e lattiginoso, pensi. Questo è un ossimoro, un modo vigliacco di raggirare, dichiari. Ah no, caro lettore, rispondo. Questo è luce e purezza nel caos e nell’oscurità. Questo è l’inizio, perché ora anch’io sono l’Alfa e l’Omega. Caro lettore, ti sto aspettando. Ho pazienza perché in me c’è l’infinito.
Storie di Steampunk – Dirigibili n. 1 – Libellula:
24 giugno 2025
“Capitano Tyler! Corazzata al largo a prua dritta!” Mossi la testa di scatto per seguire il dito del Primo Ufficiale Edward Keenan puntato in segno di avviso. Fluttuando da una nuvola grigia sopra di noi, un’enorme corazzata ghignava come uno squalo megalodonte. Era sia la bella che la bestia. Non avevo bisogno di vederne la fiancata per sapere che era il Crusher, l’ammiraglia della dispotica compagnia Darkhouse & Sons. Sulla sua gondola ci sarebbero entrati due dei nostri cacciatorpedinieri. Era verniciata color ferro opaco con una croce rossa gigante sul mostruoso involucro di gas elio. Per spostare il suo peso inimmaginabile, il Crusher era stato progettato a doppia elica. Era alimentato da tre enormi motori a carbone e montava stabilizzatori di vento delle dimensioni di fregate. Quello che mi terrorizzava maggiormente non erano i suoi duecento cannoni bensì la mitragliatrice Gatling all’avanguardia montata sul suo ponte di prua. Aveva le dimensioni di una macchina a vapore e per funzionare le serviva una squadra di cinque uomini. Avrebbe potuto distruggere uno scafo come l’artiglio di un gatto potrebbe tagliare un foglio di carta da scrivere. “Mantieni la rotta, ragazzo! Non virare!” Keenan era un buon primo ufficiale. Solo venticinque anni e proiettato in quella posizione dopo la morte di troppi uomini esperti. I primi mesi di battaglie aeree erano state un disastro per Londra. Keenan deglutì a fatica. “Agli ordini Capitano”. Afferrò il timone e ci tenne sulla rotta suicida. Eravamo un cacciatorpediniere, la metà delle dimensioni della corazzata in arrivo. Nondimeno eravamo la miglior speranza di Londra. Non avrei permesso che il Proud Gale deviasse dalla nostra missione segreta. “Capitano!” la testa di Keenan sobbalzò dal cannocchiale montato sul timone. “Il Crusher sta preparando la Gatling!” “Esonerato, Keenan!” gridai zoppicando verso il timone. La mia gamba malmessa sembrava legno marcio. Presi il posto di Keenan al voluminoso timone. “Mirate all’artiglieria pesante”. “Secondo ufficiale!” gridò Keenan. Saltò giù dal ponte di prua e con un tonfo cadde sulle umide tavole sottostanti. Il giovane non aveva prestato attenzione alla pioggia fredda. “Pronti al fuoco!” “Signorsì!” Vidi il secondo ufficiale correre sul ponte e gridare ordini ai nostri artiglieri. Il Proud Gale aveva due Gatling di media taglia a rotazione rapida. Non bastavano a danneggiare seriamente il Crusher, ma con una mira accurata potevamo costringere i nostri nemici ad allontanarsi di volata dalla loro potente arma. Guardai il mio orologio da taschino. Ormai il Darner avrebbe dovuto raggiungerci. I miei ordini potevano esser sembrati una missione suicida per i miei uomini, ma io non ero un capitano che voleva morire. Dovevamo abbattere il Crusher coordinando l’attacco con un nuovo dirigibile. La città di Londra aveva costruito un ornitottero bombardiere da combattimento ad alta velocità che poteva cambiare le sorti della guerra contro Darkhouse & Sons. “Keenan!” gridai mettendo la gamba malmessa sulla postazione del timone. “A tutta velocità!” Keenan suonò la campana del motore e sventolò le bandiere di avvertimento. Il capomacchina issò in risposta la sua bandiera e dalle turbine uscì il sibilo del vapore. La nostra elica raddoppiò la rotazione e spinse avanti il Proud Gale. Poggiai il corpo sul timone e le alette del rotore ci deviarono a babordo. Quando la nave virò brutalmente, la gondola cigolò e dondolò sotto l’involucro di gas. Quando la nostra Gatling fece fuoco, l’equipaggio lottò per tenersi in equilibrio. Proiettili traccianti seguirono il tiro dritti verso la potente arma del Crusher. I nostri nemici furono lenti ad aprire il fuoco e abbandonarono la loro arma pesante. Ma non fu vittoria. Entro pochi secondi saremmo stati alla piena portata dei loro cannoni. “Keenan!” virai bruscamente a dritta per navigare in parallelo al Crusher. “Sganciate dodici sacchi di zavorra!” “Ma Capitano!” gridò Keenan sopra il tuono ringhioso. “La spinta verso l’alto strapperà le funi di rinforzo!” “Ora, Primo Ufficiale!” urlai. Compativo Keenan. Non sapeva niente dell’audace progetto di Londra. Leale e disciplinato, il Primo Ufficiale dette ordini a gran voce e i marinai dell’aria tagliarono e fecero a pezzi una dozzina di corde. Le zavorre precipitarono e le cime dell’imbarcazione cigolarono increspandosi fino all’involucro di gas. Con un sussulto di stomaco il Proud Gale si levò verso il cielo. Cercai di non pensare agli enormi pesi che avremmo sganciato su Londra. Dio solo sapeva chi o che cosa avrebbero colpito. Era il prezzo della guerra. La pioggia gelata mi inondò e gocciolò dai miei folti baffi. I nostri cacciatorpedinieri salirono e presero colpi di cannone. La serratura del gancio di traino esplose in una pioggia di schegge. Tre marinai dell’aria furono spazzati via dal ponte. Quando il parapetto di sicurezza a dritta venne fatto a pezzi dal fuoco di cannone, si staccarono le assi. Presi il timone con forza e pregai che arrivasse il Darner. “Keenan! Rispondete al fuoco!” I nostri cannoni spararono una raffica intanto che il nostro cacciatorpediniere si stabilizzò sopra il Crusher. Le palle di cannone rimbalzarono sulla gabbia dell’involucro e precipitarono sul ponte della corazzata. Non fermai la salita dei nostri nemici. Entrambe le imbarcazioni erano state colpite violentemente ma il Proud Gale era ricoperto di legno e acciaio e aveva subito delle perdite. Avevamo perso due ganci di traino degli involucri di gas e la nostra gondola oscillava pericolosamente. Gli artiglieri del Crusher si precipitarono verso la loro massiccia Gatling. Calai il mio monocolo sull’occhio e vidi gli uomini del nemico azionare le manovelle. La poderosa arma ruotava e io sapevo che avrebbero mirato al timone. In meno di trenta secondi mi avrebbero fatto a pezzi. Guardai il mio orologio da taschino e mormorai il Padre Nostro. “Capitano!” Keenan indicò l’orizzonte. “A dritta! Dirigibile sconosciuto sopra di noi!” Misi a fuoco il monocolo e sentii sobbalzare il cuore. Dio salvi Londra! Il Darner cinguettò arrivando con quattro ali battenti a una velocità che nessun’altra nave avrebbe potuto eguagliare. La sua lunga, elegante sagoma era una striscia blu che si tuffava sui nostri nemici. Era il primo della sua categoria, un bombardiere da combattimento di classe Libellula. Il Darner fece fuoco con la Gatling strepitando verso il basso. Lasciò una scia di vapore e livellò la sua agile struttura per intercettare l’immensa corazzata. Facevo fatica a guardare l’iniquo scontro. Con una destrezza che non credevo possibile, il Darner irruppe attraverso le enormi corde che tenevano l’involucro del Crusher alla sua gondola. Le zampe del Libellula si dischiusero e lasciarono cadere il suo carico incendiario. Lo vidi schiantarsi sul ponte e incendiarsi in uno spettacolo accecante. Sentivo il nemico che urlava mentre le fiamme oleose attorcigliavano, bruciavano e divoravano le corde. “Keenan! A tutto fuoco!” I nostri cannoni scoppiarono e le nostre Gatling sputarono colpi. Il Crusher si trovò alla nostra altezza e noi sparammo una seconda, devastante raffica di cannonate al suo ponte frantumando legno e ossa. Con l’equipaggio nel panico fra le fiamme, nessuno dei loro uomini rispose al fuoco. Scatenammo una raffica finale di cannonate sui nostri nemici, il legno bruciato si frantumò e piovve su Londra. Schioccarono le corde del castello di prua della corazzata e la gondola si inclinò in avanti. Uomini che urlavano nel precipitarsi verso la morte. Con un violento conato il Crusher si inclinò e gemette come una balena morente. Sentivo l’odore delle travi bruciate attraverso la pioggia battente. Le fiamme guizzanti deformarono l’involucro di gas della corazzata e le si spezzarono i ganci. In un istante cadde come una pietra. Tanto repentinamente quanto era apparso, il Crusher scomparve sotto le nuvole. Quella che era stata una missione suicida, adesso era divenuta un trionfo. Quando il Darner ci passò accanto, dal mio equipaggio si levarono urla di gioia. Puntai il mio monocolo sulla piccola cabina appena in tempo per ricevere un saluto dal Capitano Sarah Hunter. Indossava occhiali dorati e un elmetto di cuoio rosso. La sua lunga treccia scura serpeggiava al vento. Ero sicuro che quando ha fatto ronzare il Darner attorno al Proud Gale, le sue labbra si sono arricciate in un sorriso beffardo. Sarah fece rollare il Darner in uno spettacolo di acrobazie spaventoso. Gli uomini esultarono e agitarono i loro berretti di cuoio. L’ornitottero Libellula era un capolavoro dell’ingegneria vittoriana. Sarah Hunter era il miglior pilota collaudatore di Londra e adesso era la nostra arma segreta contro l’immensa flotta aerea della Darkhouse & Sons. Samuel Tyler, Diario del Capitano, 14 giugno 1880. Prima registrazione giornaliera: La battaglia contro il Crusher è stata una vittoria necessaria, ma la guerra per la difesa di Londra è soltanto appena iniziata. Darkhouse & Sons hanno conquistato la Scozia, l’Irlanda e l’intera Inghilterra del Nord. Il colosso della società commerciale ha fame di dominare il mondo. La città di Londra sta conducendo la battaglia contro l’impero privato ma i venti di guerra non sono a nostro favore. FINE Grazie a Fabio e a Sara per aver lasciato il poster dell’ornitottero dirigibile sul tavolino dei libri.
Gnam-Gnam
22 giugno 2025
“Sai”, disse mentre faceva scivolare uno stuzzicadenti tra le dita. “Non c’è motivo di agitarsi”. Il padre fissò il bruto che si grattava i denti. Inghiottiva a fatica, la sua bocca una linea sottile con labbra umide. Spostò lo sguardo sulla compagna del bestione. Il bruto disse che era sua figlia, ma parevano troppo vicini di età perché sembrasse vero. La guardò ridacchiando piano, occhi assenti e capelli viola-blu. Gli ricordava un documentario su un pesce Dottyback, rammentò. “Davvero”, continuò il bruto. “Vogliamo solo mangiare un boccone e poi ci metteremo in viaggio”. Dottyback sghignazzò, quasi sputando il suo latte. La presunta figlia del bruto aveva chiesto del latte, benché in famiglia avessero sempre bevuto solo vino e acqua a tavola. Ma lui non osava mettere a rischio la sua stessa famiglia dicendo di no a qualsiasi richiesta. Guardò sua moglie e le sue due figlie, tutti e quattro indifesi di fronte al bestione. “La cucina di tua moglie è deliziosa”. Si voltò e fece l’occhiolino alla sua complice color malva. “Non è vero, tesoro? Dai, diglielo tu”. “Sì, deliziosa, um-gnam! Gnam-gnam!” Dottyback iniziò a schiamazzare, uno strano rantolo acuto mentre le gocciolava il latte dall’angolo della bocca. “Sì, tua moglie ha fatto un ottimo lavoro. Sono contento che abbiamo portato un pezzo così grosso”. Il bruto strizzò il seno di Dottyback. “Un gran pezzo. Non è così, tesoro?” La figlia del bruto non riuscì a trattenersi e tossì, sputando il latte nel piatto mentre ridacchiava. Respirava a fatica e iniziò a soffocare finché il bestione non iniziò a batterle la schiena. “Calma, calma, non riusciamo a capire neanche una parola di quello che dici! Allora, cosa stai cercando di dire, bambina? Cosa stai cercando di dirci?” “Gnam-gnam. Gnam-gnam-gnam!” ridacchiò lei selvaggiamente. “Oh, sì, era davvero gnam-gnam! Quel gran pezzo era un vero gnam-gnam!” Il bruto ghignò maliziosamente. Il marito incrociò lo sguardo della moglie e credette di aver visto un cenno impercettibile. Lentamente, il marito mosse la mano verso il coltello da carne. Quando il bruto lo aveva posato dopo l’ultimo taglio, lui lo aveva appoggiato con noncuranza, a non più di un braccio di distanza. La punta non si trovava più verso il suo petto ed era certo di poterla raggiungere. “Ehi, signore. Il suo non l’ha toccato. Neppure le bambine, la mogliettina nemmeno. Non avete fame? Era un pezzo grosso e meraviglioso”. Il bruto continuava a stuzzicarsi i denti. Dottyback si spellava dalle risate e batteva la mano sul tavolo. Ogni colpo faceva girare il coltello da carne e lo faceva rimbalzare di una frazione di pollice più vicino al marito. I polpastrelli quasi potevano accarezzare il manico. “No!” ringhiò Dottyback. I suoi occhi passarono da assenti a feroci, come una bestia che fissa la preda. Le spalle curve, entrambe le mani sul tavolo. All’improvviso diventò un drago blu-porpora col petto che ansimava. Il suo sguardo feroce fulminò il marito facendolo indietreggiare. “Oh no, oh no! Guarda cosa hai combinato ora. Hai fatto arrabbiare mia figlia, hai fatto. Ora vorresti non averlo fatto, sai”. Il bruto era in piedi, la sua massa spietata si protendeva verso di loro come un boia. Il marito respirava affannosamente, gli occhi guizzavano dai due estranei alla sua famiglia supplicando. Un sudore freddo gli aveva macchiato la camicia e lui armeggiava con la cravatta. “Oh, cavolo. Mica vogliamo rovinare una serata perfetta dopo che la tua signora ha cucinato quel gran pezzo per noi? Ehi, che ne dite allora di un brindisi? Come fanno i ricchi?” Sollevò il bicchiere vuoto e fissò Dottyback con occhi selvaggi. “Che ne dici, bambina?” “Gnam-gnam. Um-gnam-gnam”. “Sì, sembra giusto. Un brindisi, bambina!” Il suo corpo fu scosso da risate deliranti mentre urlavano all'unisono: “UM-GNAM-GNAM! UM-GNAM-GNAM! UM-GNAM-GNAM. QUEL RAGAZZO ERA UM-GNAM-GNAM!”
Albero Dei Sogni
19 giugno 2025
Ero così stanco per gli sforzi della giornata che non ho potuto fare a meno di appoggiare la testa. Le radici nodose e scoperte erano una culla inaspettata per le mie ossa doloranti. Quando mi sono trascinato e appoggiato all’albero, il mio corpo si è rilassato. Pensavo che avrei solo guardato il tramonto, ma accoccolato fra le radici mi sono ritrovato con gli occhi pesanti e la testa ciondolante. Mentre i raggi obliqui del sole mi scaldavano il viso, mi sono addormentato ai piedi del grande faggio. Sono stato pervaso dalla sensazione di condividere un sogno con l’albero. Sapevo di essere addormentato mentre l’albero mi infondeva la sua natura. Ho sentito che mi toccava con delicatezza la coscienza nel profondo della mente. Il faggio ha mantenuto la sua forma familiare, con la corteccia grigio-argento e le foglie verde scuro. Nel sogno l’albero aveva un inaspettato profumo di miele dorato che acuiva le mie percezioni. L’albero mi lasciava sentire gli uccelli scompigliarmi i capelli e i lombrichi dimenarsi tra le dita dei piedi. Sentivo scorrere la sua linfa nelle vene mentre spingeva la chioma sempre più in alto. Più dormivo profondamente, più il grande faggio condivideva. Il faggio permetteva che le stagioni mutevoli mi travolgessero. Autunno fresco, inverno gelido, primavera tiepida ed estate afosa. Il faggio non pronunciava mai una parola nella mia mente, ma mi conduceva per mano, i suoi rami mi accarezzavano mentre fluttuavo in avanti. Faceva cadere le foglie nel prato accanto a uno scoiattolo che saltellava. Puntava i rami spogli verso il terreno ghiacciato alle sue radici. Tendeva le gemme verso il cielo per mostrarmi una farfalla che fluttuava. Agitava le foglie per attirare la mia attenzione su un cervo che beveva a grandi sorsi dal ruscello. Mi sono svegliato più riposato di quanto non fossi stato per anni. Non c’era stanchezza nelle mie membra e la mia mente era lucida. Ho ringraziato l’albero appoggiando una mano sul tronco liscio e ho attraversato il prato per tornare alla macchina. Mi sono voltato spesso, sperando di vedere un cenno di riconoscimento dal faggio gigante, ma è rimasto silenzioso e vigile al limite del bosco. Per anni mi sono chiesto cosa avesse voluto dirmi l’albero. Stagione dopo stagione ci sono tornato, ma nessun pisolino sul suo tronco mi ha portato altri sogni condivisi. Col tempo la mia perplessità è cambiata in accettazione. Ho accolto l’idea che l’albero in quel momento avesse semplicemente desiderato condividere la sua vita con qualcuno. Quando torno a visitare il faggio, appoggio la mano sul suo tronco e gli rivolgo un silenzioso ringraziamento per essere stato il prescelto.
Ciò che si lamenta guarirà
16 giugno 2025
“Ciò che si lamenta guarirà! Ciò che si lamenta guarirà!” I corpi ondeggiavano da una parte all’altra e braccia bianche come ossa si protendevano in alto. Dolcemente inginocchiati, ondeggiando, si rilassavano sui talloni. Mentre cantavano, le teste oscillavano tranquillamente. Sulle labbra, sorrisi sereni. Si concentravano a occhi chiusi. I pensieri fluttuavano abbastanza vicino ai polpastrelli in modo da non perdersi nel vuoto. Era l’inizio. “Ciò che si lamenta guarirà! Ciò che si lamenta guarirà!” Il dolore non era più una preoccupazione, non era necessario, né voluto. Un semplice canto aveva eliminato la sofferenza e purificato le menti. Quando un accolito si sentiva afflitto, non doveva far altro che unirsi ai suoi fratelli e alle sue sorelle e cantare. Il corpo si rilassava e le mani si allungavano verso l’alto, il coro terapeutico guariva tutte le ferite e placava la mente. Era la soluzione perfetta per tutti i problemi della società. Questo era l’inizio. “Ciò che si lamenta guarirà! Ciò che si lamenta guarirà!” Se solo si fosse capito prima! Si era perso tanto tempo con dubbi infruttuosi. Il dubbio non era il regno del filosofo; era la roccaforte dell’ignorante. La guarigione perfetta era sempre stata possibile se solo ci fosse stata completa fiducia. Gli uomini dotti che guidavano gli abitanti lo sapevano da tempo e alla fine era stato compreso. L’inizio era stato forte. “Ciò che si lamenta guarirà! Ciò che si lamenta guarirà!” L’ultimo dei ritardatari era arrivato al tempio per spazzar via ogni suo dubbio. La cruda bellezza del conformismo era stata riconosciuta. Oh, gli uomini sapienti! Per fortuna avevano raggiunto le masse ignoranti in tempo per salvare tutti. Fino all’ultimo uomo, tutti si erano uniti al tempio per ondeggiare e guarire! L’inizio stava chiudendo il cerchio per arrivare alla fine. “Ciò che si lamenta guarirà! Ciò che si lamenta guarirà!” Tuttavia, c’era un uomo. Dietro ai ritardatari c’era una sola figura, pensierosa, desolata, che non si era fatta avanti. Stava in piedi in silenzio e non era caduto in ginocchio. Teneva le mani giù e non ondeggiava. Resisteva alla guarigione perfetta e ai pensieri di gloria. Non comprendeva il cerchio della fede. Aveva aperto la bocca e vomitato empietà: “Se tollerate questo, i vostri figli saranno i prossimi!” Uccidete quell’uomo.
Risposte dalla Morte
14 giugno 2025
Ho fissato la lapide più intensamente possibile. A dispetto dei miei sforzi, non potevo rompere il granito né fare in modo che il terreno si sollevasse e si deformasse. Era tutto a posto, placido come il crepuscolo. C’erano risposte nella profondità del luogo di riposo. Il difficile era tirarle fuori. Una volta ottenute le risposte, ero sicuro che avrei saputo cosa farne. “Non otterrai risposte da lì”. “Come fai a sapere che sono in cerca di risposte?” “Lo so e basta. Ma stai cercando nel posto sbagliato”. Ho ignorato l’avvertimento e sono rimasto a guardare fisso. Se non avessi trovato risposte dall’aldilà, dove altro avrei potuto trovarne? Questo mondo dei vivi ci ha dato solo mezze verità e confusione. Ma non avrei cercato altrove. Avrei cercato dove sapevo che avrei trovato le risposte di cui avevo bisogno. “Stai ancora aspettando e guardando fisso. Come ho detto, per te non ci sono risposte lì”. “Non sto sperando. E perché continui a dire che cerco risposte?” “Le vuoi. Come ho detto, io lo so”. La lapide ha continuato la sua silenziosa veglia sul mondo dell’oltretomba. Era testarda e stoica. Perfino l’erba ai suoi piedi aveva un bagliore di acciaio. Come milioni e milioni di riccioli che si sono tenuti strette le risposte. Ogni cosa nel sepolcro sembrava dire che avrebbe mantenuto i suoi segreti. Era un caveau senza combinazione. Era imperturbabile al mio sguardo. “Non ti arrendi facilmente, vero?” “Perché dici ˈnon ci sono risposte per te lìˈ?” “Ho attirato la tua attenzione, vero?” Forse non c’erano risposte per me lì, ma sapevo che era il posto giusto. Dunque, dov’era il problema? Avevo paura di non poterci entrare o temevo di non trovarci niente se lo avessi fatto? Forse avevo paura che dopo tanto cercare non avrei trovato niente. Forse non volevo sapere davvero cosa accadeva dopo. “Ora dovresti smetterla. Più tardi ti renderò tutto più facile”. “Quanto più tardi?” “Non dovrebbe volerci tanto. Fidati, queste cose le so”. I suoi strani dinieghi mi hanno dato speranza. Ha cercato di dissuadermi ma adesso sapevo che mi trovavo dove sarei dovuto essere. Volevo allungare le braccia verso la lapide per sentire la sua ruvida superficie. Lì c’erano risposte, adesso ne ero sicuro. Avevo solo patito un momento di debole panico a pensare che non avrei trovato niente. Ero certo che avrei trovato qualcosa. “Sei duro come le pietre. Forse avrai le tue risposte, dopotutto”. “E’ il momento?” “Sì, è il momento. Vieni con me”.
Per Sempre
12 giugno 2025
Il pavimento si è sollevato e ho avuto paura. Non sarebbe dovuto accadere, si suppone che i pavimenti restino dove sono, solidi come granito, o immobili come la caparbia volontà di mio fratello. Ma non in questo caso. Chissà come, il pavimento si è diviso e si è spinto in alto come dita delle mani che cercano di rappresentare un campanile. E’ singolare vedere un pavimento che tende verso il cielo come una montagna. Ed è anche terrificante. Mi sono chiesto che fare. Non avrei potuto girare intorno al cumulo crepato, ma avevo troppa paura a scalare la vetta. E se fossi caduto tra le crepe e nel terreno? Chi avrebbe udito le mie grida? Qualcuno avrebbe scritto il mio epitaffio e si sarebbe ricordato di me? Ero lacerato da questi pensieri, ma non potevo rimanere per sempre dov’ero. Lo strano concetto di ˈper sempreˈ. Penso che sia soltanto una convenzione comune per avere meno paura della morte. “Non esiste un ˈper sempreˈ”, ho pensato. E dato che avevo molta paura, un ˈper sempreˈ sarebbe potuto esistere. Mi è successo ogni volta che ho avuto paura. Avrei avuto in testa pensieri strani e confusi. Mi sono avvicinato alla sporgenza e l’ho fissata per ciò che è sembrata un’eternità. Sì, sì, lo so che non c’è niente di eterno. Ma fingere che esista un per sempre mi calma. Ho sentito che funzionava. Non avevo così tanta paura di quell’imponente cumulo di pezzi che era il pavimento. Non sembrava così minaccioso adesso che avevo una convinzione più forte nel per sempre. Magari non abbastanza forte da farmi arrampicare sopra il cumulo, ma abbastanza almeno per cominciare. I miei primi tira e molla sono stati imbarazzanti. I bordi che da sotto sembravano regolari erano frastagliati. Ho cercato di stare molto attento ma non ho potuto evitare di tagliarmi. Le piastrelle rotte mi hanno tagliato i palmi e le dita e lacerato gli stinchi. Ho deciso che sarebbe stato scaltro riposarmi, sicché mi sono addossato a una sporgenza che era un bel luogo per vedere il tramonto. Ho fatto caso soltanto dopo non c’era sole, era tutto grigio con una cauta luce fioca. Ho sentito che la vertigine della paura prendeva il sopravvento, ho chiuso gli occhi e ho detto “per sempre è per sempre, puoi credere al per sempre”. E’ appena bastato a fermare le onde e ho proseguito il mio viaggio verso l’alto. Le mie mani hanno toccato la vetta. Non ero sicuro di come sapessi di esserci arrivato ma sentivo che c’ero. Il difficile sarebbe stato rimanere in piedi, ma era l’unico modo di andare oltre. Ho chiuso gli occhi e ho pensato al ‘per sempre’. Mi tremavano le gambe quando mi sono sentito in piedi, in bilico sulla cima. Sapevo che avrei dovuto aprire gli occhi o non ce l’avrei fatta. Mi sono sentito precario come sull’orlo di un abisso. Non c’era vento ma qualcosa mi sferzava, silenzioso e immenso. Immenso, ma non eterno. Enorme ma transitorio. Ho raccolto tutto il coraggio e ho aperto gli occhi nella speranza che avrei visto l’eternità.
Il Merlo
9 giugno 2025
Il vecchio si lasciò cadere sulla sedia e sospirò. Era quasi il crepuscolo di inizio estate e il sole era basso nel cielo. Finì di inserire il tabacco nella pipa e prese i fiammiferi. Innescò la fiamma e tirò per far prendere fuoco al tabacco. Lo compresse per farlo accendere una seconda volta, inspirò profondamente e il fumo gli fluttuò dal naso. Proprio mentre soffiava al suo ritmo preferito, il vecchio alzò lo sguardo con un sopracciglio sollevato e suo nipote gli passò accanto arrancando silenziosamente. “Ragazzo mio, cosa c’è che non va?” disse. Il ragazzo si fermò e scrollò le spalle. “Nulla, nonno”. Il vecchio si batté sul ginocchio con la mano libera. “Vieni un minuto qui.” Il ragazzo si chinò in avanti e il vecchio lo prese per mano. “Giornata difficile a scuola?” Il ragazzo abbassò gli occhi con imbarazzo. “C’è un ragazzo che si prende gioco di me”. “Capisco”. Il vecchio inalò a fondo e soffiò il fumo sopra la testa del ragazzo. Fece un sorriso ironico al nipote. “Si sta facendo tardi e ti dovresti preparare ad andare a letto”. Gli mise un dito sotto al mento. “Ma, prima di lavarti i denti, vorresti sentire una storia?” Il ragazzo annuì. “Certo, nonno”. Il vecchio sbuffò con indolenza e si sistemò sulla sedia. “Tanti anni fa, ero in giardino a pulire prima di buio. Nel rientrare in casa, ho messo paura a due merli che stavano appollaiati sull’albero di limone”. Accennò al vecchio albero centenario sul retro fuori dal portico. “La femmina ha svolazzato in cerchio prima di sparire tra le foglie, il maschio è volato sul tetto. Il merlo maschio ha iniziato a cinguettare furiosamente”. Il vecchio sorrise. “Ora, io non capivo cosa diceva, ma vedevo che era arrabbiato e sapevo il perché”. Il vecchio fece una pausa, guardò il nipote e con pazienza soffiò fuori il fumo. Il ragazzo inclinò la testa e stette in silenzio un momento. Scrollò le spalle. “Perché era arrabbiato?” Il nonno sospirò è strizzò le guance al nipote. “Beh, pensaci. A dire il vero può esserci soltanto un motivo. Facevano il nido e io ho invaso il loro territorio”. Il ragazzo corrugò le sopracciglia. “Ma il giardino è tuo”. Il nonno fece una smorfia e borbottò: “penso che ti serva più di una lezione, ragazzo mio”. Scosse la testa. “Così, mi sono allontanato con cautela e con la coda dell’occhio ho guardato l’albero di limone. Era buio, ma mi è parso di intravedere qualcosa. Sono rientrato in punta di piedi, ho preso la torcia e ho esaminato l’albero a distanza. Senza dubbio, la femmina mi stava osservando attraverso le foglie dal nido intrecciato da poco”. Il vecchio indicò l’albero di limone. “Era basso al punto che avrei potuto allungare la mano e afferrarlo”. “L’hai fatto?” Il ragazzo allungò il collo guardando l’albero. “No, sono rientrato con precauzione”. Prese le mani del ragazzo: “voglio che pensi a cosa facevano i merli”. Il ragazzo alzò lo sguardo sul nonno e per la gioia del vecchio rispose saggiamente: “stavano difendendo il nido da te”. “Esatto!” Il vecchio ridacchiò. Il maschio ha cercato di distrarmi perché non vedessi e la femmina ha preso posto nel nido per difendere le uova”. Il ragazzo annuì lentamente. Guardò l’albero di limone e poi si voltò per fissare il nonno. “Hai detto che il nido era basso, avresti potuto prendere le uova”. I suoi grandi occhi castani erano imperturbabili. “Cosa avrebbero potuto fare due piccoli merli per fermarti?” “Nulla, ragazzo mio”. Il vecchio lo abbracciò stretto. “Ciò che importava era che restarono fermi al loro posto. Con quell’unico gesto di coraggio si sono guadagnati il mio affetto e la mia ammirazione”. Il ragazzo annuì e si voltò ancora a guardare l’albero di limone che ora scoppiava di frutti estivi. Il vecchio lo osservò con attenzione, certo che le rotelle girassero nella sua giovane mente. Abbracciò ancora il nipote e fu contento di sentire che le piccole braccia del ragazzo lo stringevano con forza. Lasciò andare il nipote, che fece un gran sorriso e lo salutò andando a casa. Il vecchio tirò a fondo dalla pipa con un grugnito soddisfatto e il suo sguardo si perse nell’albero di limone.
Storie di Steampunk – Allister Davies n. 1: Londra in fiamme
6 giugno 2025
Il Professore Allister Davies si tirò distrattamente il grosso papillon. Gli stivali graffiati calpestavano le tavole di legno come zoccoli di un cavallo da carrozza. Mentre aggiustava un set di ingranaggi, i gomiti della sua giacca logora sfiorarono il pulpito del macchinario. Davies infilò gli attrezzi nella borsa e chiuse la porta della gabbia. Gli crollarono le spalle. Sembrava proprio perdutamente pazzo. Nelle ultime settimane lo scienziato si sentiva come se avesse sconfitto Atlante. Perché Davies era stato testimone dell’apocalisse. Troppo spesso il suo sguardo distante era stato scambiato per superbia. I suoi colleghi lo accusavano di alterigia. Mormoravano che fosse un intollerante vaso antico più adatto a stare su una mensola che in compagnia dei suoi pari. Decenni prima, la sua fidanzata respinta sostenne che avesse il cuore vuoto. Lo accusò di essere una cantina fredda e ammuffita. La chioma lattea dava a Davies l’aspetto di un fantasma di Natale. La barba folta era una bufera di neve ammassata su un mento di pietra. Una volta un medico disse che i suoi occhi blu ghiaccio sembravano occupati a contare i neuroni. Lo definivano freddo, calcolatore e pretenzioso. Davies non faceva nulla per modificare queste opinioni. Piuttosto, si chiudeva nel suo laboratorio per giorni interi. Se solo lo avessero visto al lavoro. Nel laboratorio avrebbero visto la sua incantevole curiosità. Avrebbero sentito la sua anima da conciliatore. In piedi, di fronte al Pellegrino del Tempo, Davies si strofinò gli occhi. Era la sua più grande invenzione. Lo strumento che faceva tornare il Tempo su se stesso. Era fatto di quercia, ottone, rame, acciaio, cristalli piezoelettrici e avorio. Le manopole, le bobine e le valvole termoioniche erano posizionate con cura e collegate con filo dorato. I tubi e gli ingranaggi alla base del congegno assomigliavano al nido del Leviatano. Appoggiata sopra a una tanica d’acqua, la ciminiera a vapore era pronta a sibilare e a muggire. Lo splendido dispositivo era chiuso in una enorme gabbia di Faraday. Al centro era fissato il gigante Orologio del Tempo con le sue leve e manopole. Davies si lisciò il cappotto macchiato e logoro. Lo scienziato che avrebbe potuto allungare la mano e accarezzare la struttura del tempo assomigliava a un becchino. Si voltò verso un gentiluomo attraente rilassato su una soffice poltrona. “Payne”, disse Davis. “Tu confuti il mio testamento”. Il Professore Edgar Payne, matematico, fisico ed esperto di logica, dette un tiro alla pipa. Era l’unico vero amico e confidente di Davies. L’elegante Payne era di venticinque anni più giovane dell’inventore. Aveva capelli scuri e baffi tagliati all’ultima moda. I suoi movimenti erano misurati come i suoi pensieri. “Davies, io ho inclinazione matematica. I miei calcoli dicono che non accadrà”. “Forse nei tuoi calcoli c’è qualche variabile trascurata”, azzardò Davies. “Mi corre l’obbligo di sottolineare che l’umanità è stata in guerra dalla notte dei tempi”. “Tu fai lo scontato collegamento tra i desideri basilari dell’uomo e le conseguenze prevedibili delle sue azioni”, Payne prese il suo brandy. “Ma questo è il regno dello psicologo”. Scosse la testa. “Io ho fatto i calcoli. Nessun esercito di inarrestabili forze distruggerà la nostra Inghilterra”. Lo spelacchiato gatto bianco e arancione saltò sul pulpito del Pellegrino del Tempo. Strofinò la testa sulla mano di Davies. Il gatto proveniente dal futuro. Il gatto che ne rendeva testimonianza. Davies strinse le labbra. “Sono stato là, Payne. Ho sentito la mano ghiacciata del Mietitore afferrarmi il cuore. Ho visto le ceneri fumanti della nostra amata Londra”. “Tu hai visto una delle possibilità tra infinite possibilità”, disse Payne. “Quando sei arrivato nel futuro hai alterato la storia. L’evento non accadrà. E’ statisticamente improbabile”. Quando parlava di probabilità, Payne riusciva a essere piuttosto ostinato. “E’ stata una cosa esecrabile”, disse Davies. Accarezzò il soriano dietro gli orecchi. Il gatto fece le fusa mentre Davies sussurrò: “Ho visto l’ignobile fine dell’Inghilterra”. “Ho fatto i calcoli”, lo derise Payne. “Perfino con grandi avanzamenti militaristici la chance di un’apocalisse è vicina allo zero”. Espirò e il fumo lo avvolse. “L’umanità non è destinata a estinguersi”. Anche Davies aveva fatto i calcoli. Secondo i calcoli Payne aveva ragione. Il Teorema dell’Increspatura stabiliva che se un viaggiatore si sposta nel tempo e interagisce, l’evento non può verificarsi due volte. Ogni volta che Davies aveva viaggiato era stato una variabile vivente. Il Teorema dell’Increspatura di Payne stabiliva che una lieve alterazione del passato potrebbe cambiare il corso della storia. Ma quando Davies aveva deliberatamente dimenticato il bastone fuori della Camera dei Comuni nel 1831, l’anno successivo il risultato delle elezioni parlamentari non era cambiato. Davies si convinse che il ragionamento di Payne fosse fallace. Il Teorema dell’Increspatura poteva essere testato solo in parte dal Pellegrino del Tempo. Lo avevano usato per viaggiare dal 1870 e osservare la prima Guerra delle Due Rose. Erano stati testimoni dell’inizio della Rivoluzione Industriale. Avevano contemplato Guglielmo il Conquistatore mentre marciava su Londra. Quella visita aveva quasi ucciso Davies. Eppure nessuno di quei viaggi aveva cambiato il futuro dell’Inghilterra vittoriana. Payne sostenne che senza dubbio piccoli cambiamenti erano avvenuti. Davies non fu d’accordo. Intanto che il gatto si lisciava Davies parlò: “Payne, te lo posso dimostrare”. Payne agitò una mano. “Probabilmente lo hai sognato. Hai usato troppo spesso la macchina. Ti ha disturbato il sonno. Ti friggerà il cervello”. “Il tempo è un fenomeno ciclico”, disse Davies. Il soriano spelacchiato fece le fusa in segno di approvazione. “Tutto è accaduto e tutto accadrà”. “Ti sei riempito la testa di filosofia vedica”, disse Payne dando un colpetto alla pipa. Accavallò le gambe e sorrise. “Perché non ti unisci a me e ad Agnes in un’affascinante passeggiata per le viuzze di Londra? Ieri siamo stati giù per Pickwick Way. I pomi di ottone luccicavano e le persiane erano dipinte in una gaia tonalità di blu. Ti solleverà lo spirito”. “Ho riportato qualcosa con me”. Nel pronunciare queste parole, gli occhi di Davies si sfocarono. Erano intensi ed elettrici. Lasciò che la stupefacente rivelazione aleggiasse nell’aria. Payne strinse la pipa fino a farsi diventare la mano bianca come un osso. Si ritrasse nel morbido tessuto in pelle. Gli tremava la voce. “Quello... quello è proibito!” “Non è proprio come pensi”, mormorò Davies. “Il gatto. Mi ha seguito. Non avevo il coraggio di cacciarlo dal Pellegrino del Tempo quando si è accesa la gabbia di Faraday. La povera bestia sarebbe andata perduta nel Caleidoscopio da Viaggio”. Payne si strofinò il viso. “Hai rischiato la storia per quella dannata palla di pulci?” Quasi urlava. Payne aveva sempre mantenuto il proprio contegno. Ma adesso era furioso. “Potresti avere alterato il corso del nostro Impero!” “Edgar, mio brav’uomo, temo che nulla sia mutato”, Davies scosse la testa. Posò lentamente le mani sulle manopole del Pellegrino del Tempo. “Lascia che lo dimostri impostando l’orologio su giugno 2050”. “Allister, questa è follia”, Payne stava in piedi e indicava il soriano. “Avresti dovuto lasciarlo sparire nel Caleidoscopio da Viaggio”. Davies tirò una leva e la macchina a vapore fece uno scoppio. “Il gatto non è altro che un raggio nella Ruota del Cosmo”. Il Pellegrino del Tempo si riavviò con un gemito. Le valvole termoioniche divennero incandescenti e le lancette dell’orologio iniziarono a roteare. Archi elettrici lampeggiavano sulla gabbia di Faraday. Il vapore uscì e riempì il laboratorio come un gregge di pecore. Davies sembrava matto mentre i suoi capelli bianchi fluttuanti si drizzavano. “Lascia che ti mostri la nostra cara Londra nel 2050”. “Perché?” gridò Payne. Stava in piedi accanto alla porta della gabbia. “Ora che differenza farà? E’ cambiato tutto!” “Io dico che il futuro non è cambiato. L’umanità è sulla strada della perdizione”. Il soriano spelacchiato soffiava fra le braccia di Davies. L’inventore aprì la porta della gabbia e tutto intorno scoppiettarono fulmini. “Non possiamo alterare gli eventi imposti dalla superbia dell’uomo”. La porta della gabbia sbatté. Il vapore fuoriuscì e la stanza si annebbiò. Il fragoroso schiocco di fulmine minacciò di far crollare Zeus dal Monte Olimpo. Il boato della macchina a vapore riempì le loro orecchie. Quando furono scagliati nel Caleidoscopio da Viaggio la sfocatura prese colore. Gli arcobaleni circolari sapevano di rame e vetro. Mentre il gatto soffiava tra le braccia di Davies, intorno a loro esplose la luce. Poi silenzio. Il vapore si dissolse. All’orizzonte apparvero i resti di una grande città. “Buon Dio, Davies”, Payne si mise una mano sulla bocca. “Questa non può essere Londra. Per favore dimmi che siamo su Venere oppure su Marte!” “Siamo a Londra, giugno 2050”, Davies fu scosso da un fremito nel sentire un urlo in lontananza. I lamenti lugubri dei moribondi lo fecero rabbrividire. Accarezzando il logoro pelo del gatto, si girò verso Payne: “Che ne sarà dei nostri discendenti se non facciamo nulla con questa conoscenza? Se il Teorema dell’Increspatura è corretto, mettiamolo alla prova. Dobbiamo fermare questa follia”. Intorno a loro una terra desolata di mattone, vetro, acciaio e pietra era in combustione latente. Strani carri senza cavalli erano rovesciati e distrutti. Congegni di ferro, con enormi cannoni e catene segmentate sulle ruote, fumavano. Qualcosa di simile a un ornitottero capovolto. Il fetore di carne in decomposizione li nauseava. Il soriano miagolò. Davies mise una mano sulla spalla di Payne. Aveva già visto tutto ciò. Ma Davies aveva dimenticato di informare Payne di un dettaglio specifico. Questo non era il suo secondo viaggio a Londra, giugno 2050. Era il nono. E ogni volta Londra era in fiamme. FINE Un ringraziamento speciale a Gianluca per l’apocalittico tema contro la guerra, a Mary e a David per avermi mostrato il loro Orologio Steampunk, e ad Aria per il gatto.